mercoledì 6 marzo 2013
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​Presidi psichiatrici in carcere, nuovi mezzi per intensificare i servizi sui territori, anche con l’aiuto «insostituibile del volontariato». Non ci sta ad avallare la logica dell’urgenza nella chiusura degli ospedali psichiatrici il presidente della Società Italiana di psichiatri Claudio Mencacci; non si può - dice - caricare di nuovi compiti i dipartimenti di salute mentale «già soggetti ai tagli lineari».Ma gli opg dovranno essere chiusi a fine marzoNon sarà così. Le Regioni hanno già chiesto una proroga al 30 giugno e si sta già pensando di arrivare fino a fine 2013. Molti interventi di conversione delle strutture non saranno pronte fino al 2015. Serve una gradualità maggiore per dare modo al territorio di cambiare il modo di operare.Come si dovrebbe procedere secondo lei?Va pensato, ad esempio, a quel 10% di internati autori di reati, per cui dovrà essere prevista una struttura sanitaria con vigilanza esterna. Va valutato caso per caso quel 30% di persone che si sono ammalate nelle carceri, poi spedite negli opg, restituibili al territorio. Servono nuovi reparti di osservazioni e occorre potenziare l’assistenza psichiatrica nelle carceri per poter intervenire tempestivamente con chi manifesta problemi mentali. Poi ancora, i Dsm vanno adeguatamente rinforzati, di uomini e risorse, per permettergli di costruire percorsi di riabilitazione individualizzati.E gli psichiatri che ruolo avrebbero?Il compito dello psichiatra è la cura. Non accettiamo qualsiasi posizione di custodia e vigilanza, come in certi casi ci viene chiesto di fare. Vorremmo anche entrare nelle carceri dove l’assistenza psichiatrica è modesta, con dei presidi organizzati. Basta pensare che dal primo aprile nessuno entrerà più negli opg, le persone con un’infermità mentale dove andranno? In carcere. E lì cosa trovano per curarsi? Niente. Non c’è anche un problema di formazione specializzata di voi operatori?È chiaro che nelle strutture o in carcere occorre una formazione differenziata e personale esperto. La questione però è un’altra. In un momento di crisi il livello di disagio mentale aumenta e questo va ad aggiungersi alla cura degli internati. Si devono potenziare i servizi, dando più soldi. Altrimenti è solo una dichiarazione d’intenti. Il nocciolo delle questione è come reinserire gli ultimi tra gli ultimi.Belle parole. Ma nella pratica?I percorsi territoriali sono possibili solo dove c’è un lavoro di rete con i familiari e associazioni di volontariato. È il terzo settore che dà la risposta più positiva e costruttiva, smuove le montagne anche senza soldi, ma capiamo che non resisterà a lungo. Ci vuole tempo e un territorio recettivo, questo lo costruisci in anni, anche con l’aiuto di un volontariato aperto e generoso.
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