venerdì 10 maggio 2013
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«Ora il Pd deve fare solo una cosa: un congresso vero, di fondazione. Perché tutti i congressi che si sono succeduti dalla sua nascita a oggi sono stati celebrati in situazioni d’emergenza e con l’unica finalità di scegliere la leadership». Giuseppe Vacca, presidente dell’Istituto Gramsci ed ex parlamentare, conosce da molto vicino le vicende del Pd. Ma, nonostante «la cocente delusione» per le ultime performance del partito, non è pessimista sul suo futuro. «Sono stati commessi molti errori in questi mesi e in questi anni – spiega in questa intervista – ma non sono d’accordo con chi profetizza l’imminente implosione del Pd. Non nego i problemi e le questioni che sono tanti e spinosi. Ma mi limito a osservare che, nonostante la crisi evidente, questo partito riesce a esprimere ancora il capo dello Stato, il capo del governo, il presidente del Senato e a promuovere e sostenere la nascita di un governo di larga coalizione, il primo, storicamente parlando, dell’Italia repubblicana. Il Pd è l’unica forza politica nazionale e non personale nata nella lunga stagione della Seconda Repubblica. Ora che si sta entrando nella Terza Repubblica c’è certamente la necessità di una vera fondazione. Non per decidere il leader ma per dare una cultura e una linea politica chiara per il futuro del Paese». Professor Vacca, si addebita la crisi del Pd a un peccato di origine: la fusione a freddo tra ex dc ed ex pci mai perfettamente riuscita... La colpa non è di quel disegno che voleva unire le culture democratiche e riformiste del Paese. C’è invece la responsabilità precisa e condivisa di tutti i gruppi dirigenti che si sono succeduti dalla nascita del Pd: quella di  non aver voluto affrontare il problema della definizione di una cultura politica unificante. Credo che un altro punto di grave debolezza sia nel non aver costruito in questi anni una vera alternativa alla destra sul nodo della europeizzazione dell’Italia. Lo si è visto molto chiaramente dopo l’occasione sprecata del governo Monti e delle ultime elezioni.Qualcuno, nel Pd, sostiene invece che, invece di sostenere il governo Monti, bisognava andare alle elezioni subito dopo la caduta di Berlusconi e incassare il successo elettorale...Non avrebbe risolto i problemi. Il governo Monti, nella sua prima fase, ha evitato il burrone e ha fatto riforme inevitabili sul mercato del lavoro e sulle pensioni. Esaurita la prima fase del governo Monti, si doveva cambiare la legge elettorale e impegnarsi per dare vita a una legislatura stabilizzatrice, costruendo una alleanza tra Pd e il centro di Monti e Casini. Ma la riforma del porcellum non è andata in porto e la situazione ci è sfuggita di mano... Si è creato un grande vuoto nel quale Berlusconi è tornato in campo, allargando le possibilità di orientare il voto di protesta a favore di Grillo. Ma anche la gestione del dopo elezioni ha mostrato i limiti di un Pd alla corde, tra governo ed elezione del capo dello Stato...Non bisognava arrivare a sfidare Napolitano proponendo un governo di minoranza. E, quanto a Grillo, il confronto doveva essere fatto sulle questioni di governo svincolandolo dall’elezione del nuovo capo dello Stato. Inoltre, se non si voleva fare il governo con Berlusconi, bisognava dire chiaramente che si era pronti a nuove elezioni. Alla fine –  quasi uno stato di necessità – è venuto fuori questo governo di larghe intese dal sapore post-democristiano. È un bene per il Paese, è un bene anche per il Pd che può gestire con serenità, se ci riesce, la fase congressuale.Sempre che Letta duri, esposto com’è alle bufere quotidiane, a cominciare dalle vicende giudiziarie di Berlusconi.Secondo me può durare. In Europa questo governo ha molti più alleati di quanti può averne il Pdl. E soprattutto dobbiamo ricordare che a giugno si apre un confronto decisivo per il futuro europeo.  Si discuterà della creazione dell’area di libero scambio tra Usa e Ue proposta da Obama. Può essere l’occasione per discutere il superamento del dualismo conflittuale dollaro-euro e per disegnare un futuro diverso, passando per la revisione di Maastricht. La domanda fondamentale che il Pd deve farsi oggi è questa: a quali condizioni l’Italia può interrompere il suo declino negoziando i vincoli europei?La sinistra italiana sembra aver perso anche la primogenitura della moralità della politica, regalando voti al M5S. I voti a Grillo significano due cose. Certamente la protesta contro lo stallo della politica e i suoi "costi". Ma si tratta in massima parte di italiani che chiedono di essere inclusi: siano essi i giovani senza lavoro, i piccoli imprenditori del Nordest o i professionisti. Con una politica rinnovata ed efficace sono voti che in parte possono rientrare. Le primarie: sembravano aver messo il turbo al Pd e invece sono diventate una sorta di trappola.C’è stata una retorica delle primarie. Il problema è che il Pd ha subito unilateralmente la logica del porcellum. Non l’ha cambiato? Doveva lottare perché le primarie fossero stabilite per legge e per tutti. Le ha fatte da solo, in fretta e furia, e il risultato è che una parte significativa della rappresentanza parlamentare appare, per cultura e mentalità non tanto diversa dai grillini. Cosa dovrebbe fare il Pd per rilanciarsi?Fare un congresso vero su questi temi: cambiare la legge elettorale per dare al Paese una nuova rappresentanza; affrontare i nodi della redistribuzione del lavoro confrontandosi con tutti ma senza farsi dettare l’agenda dai sindacati; affrontare la questione del vincolo estero; modernizzare e moralizzare la pubblica amministrazione, a partire da una profonda riforma del federalismo e del regionalismo.
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