domenica 13 febbraio 2022
Il sottosegretario alla Programmazione economica: «Draghi fa bene a non commettere lo stesso errore di Monti, ma solo lui può realizzare il Piano Ue dopo il 2023. E il Paese reale lo sostiene»
Bruno Tabacci, sottosegretario alla presidenza del Consiglio

Bruno Tabacci, sottosegretario alla presidenza del Consiglio - Ansa / fermo immagine Sky tg24

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In via della Mercede, nell’ufficio di Bruno Tabacci, ai lati di un’attrezzata libreria di storiografia politica ed economica (le sue due passioni) fanno bella mostra di sé una bandiera dell’Europa e la foto di Sergio Mattarella. Il presidente di Centro democratico ci credeva, e ha lavorato per far sì che quella foto non si dovesse cambiare. «Non solo l’emergenza Covid, il Pnrr, con il grande piano di riforme che si porta dietro. Ci sarà da gestire anche il delicato passaggio del taglio dei parlamentari. C’era un’esigenza di continuità e nessuno più di Mattarella poteva essere garante di un processo in cui si gioca il futuro dell’Italia», dice il sottosegretario che Mario Draghi ha voluto alla delega cruciale per la programmazione e il coordinamento economico, in nome di un antico rapporto risalente a quando Tabacci era al Tesoro, braccio destro di un giovane ministro, Giovanni Goria. Ma ora va oltre: «Il governo Draghi non può terminare nel 2023. Tutti i partiti che lo sostengono saranno chiamati a una scelta di cui dovranno dar conto al loro elettorato. Non possono lasciare le cose a metà se non vorranno intestarsi la colpa di far ripiombare il Paese nel baratro di una crisi da cui ci stiamo sollevando, con numeri di crescita oltre le attese».

Draghi al Quirinale non poteva garantire una continuità più duratura?

Sarebbe stata una buona soluzione, ma occorreva lavorarci per tempo, individuando una valida alternativa per dare continuità all’esecutivo. I partiti avrebbero dovuto proporlo, però, alla prima votazione. Andando avanti invece con gli scrutini si correva il rischio di bruciare, insieme, Draghi e anche Mattarella. Sarebbe stata una sciagura. Per fortuna è venuta invece la spinta dei grandi elettori per Mattarella.

Ma Draghi ora esclude un impegno in politica nel 2023.

Ha escluso di poter essere il federatore del centro, non commetterà cioè lo stesso errore di Mario Monti. Come dargli torto? Non ambisce a ruoli, come non ambiva Mattarella; ma se fosse di nuovo Mattarella, prendendo atto della spinta del Paese dettata dalla realtà delle cose e di una conseguente convergenza delle forze politiche, a proporgli un nuovo incarico, non potrebbe non mettere al primo posto il bene dell’Italia.

Ma lei crede possibile una presa di coscienza collettiva? I partiti sono già in campagna elettorale...

La campagna elettorale è un atto di una partita in cui l’Italia e l’Europa si giocano la vita. Come i grandi elettori hanno interpretato un’esigenza maggioritaria nel Paese, così la stessa esigenza si manifesterà quando ci si porrà il quesito di chi sia in grado di reggere il timone nel 2023.

Ma ci sono tutti i dubbi legati all’oggi, con la crisi energetica. E lei scommette addirittura su un fronte largo capace di restare unito alle prossime elezioni?

Capisco i dubbi, e anche i rischi. Questa coalizione di governo ha balbettato nel voto per il capo dello Stato. Ma ora siamo a un bivio storico, se partiti e forze sociali si illudono di poter ricominciare con la pochezza distruttiva degli ultimi anni, sprechiamo un’occasione irripetibile e condanniamo il nostro Paese all’irrilevanza. O, peggio, a portare i libri in tribunale. La pandemia ha cambiato gli italiani: oggi sono più attenti, concreti ed esigenti. Li abbiamo visti sopportare sacrifici enormi, mettersi in fila per la vaccinazione. Pensa davvero che potrebbero perdonare ai leader nuovi balletti? Non c’è margine, mi creda.

Ma un tecnico al timone così a lungo non è una bocciatura per la politica?

Draghi è anche un politico finissimo. La sua disponibilità è stata un’opportunità storica per i partiti. Per compiere un salto di qualità, per uscire dalla politica parolaia e misurarsi sulle sfide che interessano la vita delle persone. Lui sta governando, non è interessato a vivacchiare. E sa che i progetti concordati con l’Europa vanno realizzati entro il 31 dicembre 2026. Diversamente i soldi stanziati saranno persi, e partiti che non sapranno cogliere la sfida ne usciranno penalizzati.

Chi starà con Draghi?

Il Paese reale. Quanto ai partiti la Ue sarà la bussola. Col piano Next generation Eu ha fatto, con debito comune, una scelta impensabile fino a qualche anno fa. L’era dei sovranisti si chiuderà in modo credo definitivo. Anche nei 5 stelle, sono fiducioso, vincerà la linea europeista e Di Maio è interlocutore credibile. Così nella Lega si è aperta una profonda riflessione.

Che cosa c’è in ballo, in termini di numeri?

Il Pnrr è un passaggio decisivo che mette a dura prova l’efficienza dello Stato e della PA. Ci sono risorse in ballo per oltre 500 miliardi, includendo il piano nazionale complementare, i fondi strutturali con cofinanziamento nazionale, il Fondo di coesione 2021/2027. Sul Fondo coesione e sviluppo 2014/2020 abbiamo visto che dei 47 miliardi preventivati ne sono stati impegnati solo 11 e spesi appena 4,2. Esso andrà ora rimodulato entro il 31 dicembre 2023, quindi in meno di due anni dovremmo saper recuperare, come sistema Paese, quel che non siamo riusciti a fare in 6 anni. La vedo difficile, se dovessimo rinunciare al ruolo guida di Draghi. Senza parlare dei 66 miliardi in ballo con gli enti locali fra istruzione, trasporti, gestione rifiuti, con le grandi sfide che abbiamo di fronte sulla riforma della giustizia e della PA, e sulla transizione ecologica e digitale, che riguardano trasversalmente tutto il sistema Paese.

E la Lega, in tutto questo?

Per quel che rappresenta, per le Regioni che guida, non può essere tenuta fuori da questo processo. Ma sarebbe un errore storico se si tirasse fuori da sola. I ceti produttivi, suoi interlocutori naturali, vedono in Draghi il punto di riferimento per un orizzonte di crescita che altrimenti rischia di svanire. Se Salvini scegliesse di inseguire battaglie di corto respiro, per miope calcolo elettorale, ne uscirebbe sconfitto. Il campanello d’allarme è già suonato alle amministrative, in cui ha pagato comportamenti ambigui sulla lotta al Covid. Alle elezioni i partiti si misurino, mi auguro col proporzionale. Cerchino pure qualcun altro, se ritengono di avere di meglio, e voglio vederli. Poi di fronte alla difficoltà estrema delle sfide dei prossimi anni e alle aspettative degli italiani, vedremo se qualcuno dell’attuale maggioranza avrà la forza di chiamarsi fuori.

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