martedì 23 ottobre 2012
Il tribunale di Roma: a rischio il diritto alla segretezza. Domani parola alla Consulta. Impugnata la norma del codice di procedura penale che consente di disporre in dibattimento una perizia sulle trascrizioni. Secondo la prima sezione, la diffusione del contenuto delle conversazioni irrilevanti ai fini del giudizio viola gli articoli 2 e 15 della Costituzione.
COMMENTA E CONDIVIDI
​La diffusione pubblica di intercettazioni raccolte a fini investigativi – ma irrilevanti per il processo – infrange i «diritti inviolabili» del cittadino e, tra questi, in particolare quello alla «libertà e alla segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione», tutelati dagli articoli 2 e 15 della Costituzione. L’allarme è del tribunale di Roma, prima sezione penale, che nell’aprile scorso ha infatti sollevato una questione di legittimità costituzionale, impugnando l’articolo 224 del codice di procedura penale «nella parte in cui prevede che il giudice del dibattimento disponga perizia avente a oggetto la trascrizione di conversazioni o comunicazioni telefoniche intercettate ai sensi degli articoli 266 e seguenti» del medesimo codice.Il ricorso del collegio presieduto da Piero De Crescenzo è passato sotto silenzio, ma domani la Corte costituzionale si riunirà in camera di consiglio (giudice relatore Giuseppe Frigo) per sciogliere il nodo emerso nel corso di un processo a carico di quattordici imputati di numerosi reati, tra i quali l’associazione per delinquere finalizzata a consentire l’illegale permanenza sul territorio italiano di alcuni cittadini extracomunitari.È accaduto che il pubblico ministero ha chiesto, in sede di ammissione delle prove, «la trascrizione a mezzo perizia delle comunicazioni intercettate» nel corso delle indagini, riservandosi «di produrre elenco delle comunicazioni ritenute rilevanti». Né, scrivono i giudici, è stato chiarito per quale «"interesse di giustizia" ritenuto prevalente» la trascrizione integrale delle registrazioni non sia avvenuta in fase di indagini preliminari, come espressamente previsto dall’articolo 268 del codice di procedura penale. Nella successiva udienza, lo stesso pm ha depositato agli atti una lista contenente le indicazioni di circa 130 telefonate «non corredate – si legge nel ricorso – da alcuna circostanza utile a indicarne la rilevanza». E, ovviamente, i difensori degli imputati hanno chiesto di conoscere quali fossero le comunicazioni selezionate e la documentazione ad esse relativa. A questo punto, se il processo fosse proseguito, il contenuto di tutte le 130 intercettazioni sarebbe divenuto di pubblico dominio.Da qui la sospensione del giudizio e la questione sollevata dal Tribunale, convinto che la materia «rientri nella competenza non solo funzionale, ma anche esclusiva, del giudice per le indagini preliminari». Il quale, soltanto, può «individuare, in un riservato contraddittorio», le intercettazioni rilevanti ai fini del processo e quelle che non lo sono.Tale interpretazione non è tuttavia pacifica, ammette la stessa prima sezione del Tribunale capitolino, ricordando la «consolidata giurisprudenza» della Cassazione in senso contrario. Ma a favore della propria tesi i magistrati ricorrenti portano una sentenza della Corte costituzionale del 1973 (la numero 34), in cui si ricorda il principio secondo il quale può essere acquisito agli atti solo «il materiale probatorio rilevante per il giudizio» e si afferma: «L’applicazione del suddetto principio non solo garantisce la segretezza di tutte quelle comunicazioni telefoniche dell’imputato che non siano rilevanti ai fini del relativo processo, ma garantisce altresì la segretezza delle comunicazioni non pertinenti a quel processo che terzi, allo stesso estranei, abbiano fatto attraverso l’apparecchio telefonico sottoposto a controllo di intercettazione ovvero in collegamento con questo».Si badi bene, la posizione di "terzo" è esattamente quella del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel fascicolo sulla presunta trattativa Stato-mafia istruito dalla procura di Palermo, per via delle quattro conversazioni telefoniche intercorse con l’ex-ministro dell’Interno Nicola Mancino. E da quelle intercettazioni è scaturito il conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato di cui la Consulta discuterà il 4 dicembre, seppure lì il motivo del contendere sono le prerogative del capo dello Stato.«La Corte – ricorda ancora il Tribunale di Roma – ritiene che il rigoroso rispetto di questo principio sia essenziale per la puntuale osservanza degli artt. 2 e 15 della Costituzione: violerebbe gravemente entrambe le norme costituzionali un sistema che, senza soddisfare gli interessi di giustizia, in funzione dei quali è consentita la limitazione della libertà e delle segretezza delle comunicazioni, autorizzasse la divulgazione in pubblico dibattimento del contenuto di comunicazioni telefoniche non pertinenti al processo».Parola di nuovo ai giudici costituzionali, dunque. E, anche se gli aspetti normativi in esame possono apparire marginali, la posta in gioco è tutt’altro che trascurabile, perché investe proprio quel delicato equilibrio tra esigenze d’indagine, certezza del diritto, libertà d’informazione e diritto alla riservatezza che tutti (almeno a parole) auspicano quando si parla d’intercettazioni.Se si considera, appunto, che il problema è giunto a riguardare perfino la massima carica istituzionale e che il sistema vigente (pur quando non "sconfina" nel dibattimento, come nel caso di cui parliamo) fa acqua da tutte le parti, vista la valanga di conversazioni e addirittura di sms che finisce sui giornali, una legge di riforma non potrà probabilmente non tenere conto del giudizio della Corte costituzionale riguardo a questo ricorso, fin qui passato inosservato, del Tribunale di Roma.
© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: