martedì 14 novembre 2017
In provincia di Gorizia, tre storie raccontano del rapporto tra italiani e stranieri
Il degrado sulle rive del fiume Isonzo. Poco distante, nel Cara di Gradisca, 650 migranti vivono in gran parte nelle gabbie dell'ex Cie, il centro di detenzione per quelli che erano i "clandestini"

Il degrado sulle rive del fiume Isonzo. Poco distante, nel Cara di Gradisca, 650 migranti vivono in gran parte nelle gabbie dell'ex Cie, il centro di detenzione per quelli che erano i "clandestini"

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Domenica abbiamo raccontato quanto avviene nel cuore di Gorizia, all’interno della Galleria Bombi, un tempo aperta al traffico, oggi occupata nelle notti da 120 afghani e pachistani che attendono per mesi la risposta della Commissione prefettizia alla richiesta d’asilo. Affrontano gelo e fame solo grazie a volontari che ogni notte portano coperte, cibi e medicinali. Ma l’emergenza sanitaria è grave, manca l’acqua per lavarsi e c’è rischio di malattie. Una situazione limite che ha due cause principali: Gorizia è capolinea della rotta balcanica, ma soprattutto è sede della Commissione per tutto il Triveneto. «Sono solo in sei a lavorare – denuncia il sindaco di Gorizia, Rodolfo Ziberna –, anziché settimane ci mettono mesi. Ho chiesto al ministro dell’Interno Minniti di quadruplicare le Commissioni, una per capoluogo del Friuli Venezia Giulia, o almeno di raddoppiare e spostarle a Trieste e Udine». Intanto però nel tunnel la situazione è disperata e l’arcivescovo,Carlo Redaelli, teme il peggio: «Occorre che il Comune prenda provvedimenti prima che accada l’irreparabile», è il suo appello, «sono tante le storture della politica, ma quelle vanno risolte a livello internazionale e nazionale. Intanto noi qui abbiamo delle persone, e non possiamo lasciarle nell’abbandono». In città solo la Chiesa e la Caritas mettono a disposizione le strutture per centinaia di profughi. Il vero nodo della questione, però, una bomba ad orologeria, è il Cara della vicina Gradisca con i suoi 650 ospiti, che dovrebbe chiudere a fine anno. E mentre a Grado paure 'percepite' portano la popolazione a rifiutare lo Sprar (18 migranti in tutto su 8.400 abitanti), laddove l’accoglienza diffusa è una realtà la convivenza è diventata possibile, come dimostra il caso della piccola Turriaco. ( 2 - fine)

Il paese che dice sì. «Così i profughi sono stati accettati»

Un anno fa qualcuno aveva sinistramente appeso una bottiglia molotov all’albero davanti a casa. Poi erano arrivate le lettere di minaccia. Era la paura a mutare la gente di Turriaco, tranquillo paesino di 2.800 anime tra l’Isonzo e Monfalcone. «Ma ora che la popolazione ha conosciuto questi ragazzi e li ha visti attivi, non abbiamo più problemi, li ha accettati del tutto», racconta il sindaco Enrico Bullian, 34 anni. «Una scelta come la mia non porta consenso, semmai perdi voti, all’inizio non è stata una passeggiata».

Quella che era la stazione dei Carabinieri dismessa, da febbraio 2017 è diventata un Cas (Centro di accoglienza straordinaria) dove 12 migranti attendono la risposta della Commissione prefettizia alla domanda di asilo (attesa in teoria di 2 mesi, in realtà anche di un anno e mezzo): via via che ottengono lo status di rifugiato ripartono verso uno dei Comuni che aderiscono alla rete dello Sprar, ossia all’'accoglienza diffusa' (2,5 profughi ogni mille abitanti).

L’obiettivo di Turriaco era raggiungere una concreta integrazione, «così abbiamo modificato la convenzione standard che la prefettura propone ai Comuni. Ad esempio, di solito i pasti arrivano preconfezionati da fuori, invece il nostro punto di vista è che non sono né malati né disabili, nessuno gli dà la pappa pronta, si fanno la spesa nei negozi del paese e cucinano loro». I soldi arrivano attraverso la cooperativa '2001 Agenzia sociale', che ha vinto il bando e riceve dallo Stato 33 euro al giorno per ciascuno: «Diamo a testa 30 euro a settimana per farsi la spesa, più 30 euro mensili per l’igiene personale – spiega la responsabile Denise Demurtas –. Il resto copre i costi del personale, le utenze, il vestiario, le spese sanitarie, i materiali scolastici, gli abbonamenti per l’autobus con cui vanno ai corsi di italiano...».

L’altra carta vincente è il lavoro, che tutti i migranti svolgono ogni giorno e gratuitamente: «Non sono lavori socialmente utili, che sono riservati agli italiani – sottolinea il sindaco –, ma lavori volontari, che a loro presentiamo come giusta restituzione del vitto e alloggio ricevuti dall’Italia. Il modo c’è, basta pagare un’assicurazione, tenere un corso di sicurezza sul lavoro, fare la visita medica, poi tutto è legale». Hanno pitturato il campo sportivo e la struttura dei disabili, allestito gli orti sociali per la popolazione, curato la raccolta differenziata nella festa del baccalà... Giorni fa, saputo che a Gorizia in galleria Bombi 120 stranieri vivono in miseria, hanno fatto una colletta e cucinato per loro: «Doveva vederli in galleria, con i guanti, i piatti di carta, a distribuire le porzioni».

Sono afghani e pakistani, islamici e cristiani insieme, tutti sognano un permesso d’asilo e poi un lavoro in qualche parte d’Europa, quando la Commissione si sarà espressa. Ahmed Sajad, 36 anni, padre di 4 bambini in Pakistan, è qui da un anno. «Ho viaggiato a piedi, in autobus, barca, treno, attraverso Turchia, Grecia, Serbia e Ungheria, sono arrivato a Tarvisio e da lì in Italia», unico Paese a riconoscere l’asilo ai pachistani provenienti da una nazione non in guerra, ma in miseria. «Sono elettricista, vorrei mandare aiuti ai miei figli». Nazari Fardi, 23 anni, afghano, canta a Monfalcone in una band con giovani italiani. Con voce struggente intona un canto in farsi e gli afghani diventano pensosi. «Parla della mamma e della nostalgia», spiega alla fine. Un tema antico quanto l’uomo.

Il paese che dice no. Isolato il sindaco. «No a 18 rifugiati»

Un lungo ponte conduce a Grado, tra odore di salmastro e acque ferme. Il Comune, 8.400 abitanti, sorge sulla più grande di 30 isole e la terraferma sembra molto lontana di questi tempi: «La presente mozione impegna il sindaco a comunicare al prefetto l’intenzione di Grado di non accogliere alcun soggetto presente sul territorio nazionale, che abbia in corso qualsiasi procedura di riconoscimento di status di 'rifugiato politico' e/o di 'richiedente asilo'... », hanno scritto e sottoscritto alcuni consiglieri comunali del centrodestra e del Pd uniti. Zero accoglienza, insomma, di ogni tipo e in ogni caso. Una durezza che si comprende ancor meglio leggendo il manifesto con cui a metà ottobre il Comitato 'Grado no immigrati' invitava la cittadinanza a portare i bambini in consiglio comunale per dire no ai migranti: 'Grado è e deve rimanere un’isola felice'.

Questo l’obiettivo, isolarsi dai problemi del mondo, immuni e 'felici'. La scintilla che ha scatenato un tale incendio, invece, è l’ipotesi dell’arrivo di 18 stranieri, ovvero i 2,5 ogni mille abitanti previsti dallo Sprar. Un’ipotesi caldeggiata da Dario Raugna, sindaco da un anno e mezzo con una lista civica, contro il quale si è scatenata una guerra fatta di proteste, manifestazioni lecite, più spesso insulti pesanti e azioni mai accadute prima: «Per due volte l’aula è stata invasa a suon di grida e un consigliere d’opposizione ha bloccato il consiglio – racconta Raugna –, è venuto verso di me e mi ha spento i microfoni per impedirmi di parlare. Un precedente gravissimo: se si impedisce il confronto democratico nell’assise a questo preposta, cosa verrà dopo?». Il problema di Grado è a monte, si innesta nel caos di Gradisca e del suo Cara (Centro accoglienza richiedenti asilo), che ormai è al collasso e deve necessariamente distribuire alcuni migranti in attesa del sì o del no della Commissione prefettizia. «L’Europa deve venire in aiuto dell’Italia e il Trattato di Dublino va rivisto. Ma intanto girarsi dall’altra parte non risolve, anzi peggiora. Abbiamo due strade – spiega –, o facciamo lo Sprar, e allora a Grado arriveranno solo i 18 migranti dovuti e il Comune li controllerà in una struttura precisa e saprà chi sono, o ci rifiutiamo, e allora lo Stato farà i suoi bandi privati e il Comune non avrà alcun potere. Potremmo anche vederci calare dall’alto una grande struttura». Il bando della Prefettura parla chiaro: i richiedenti da sistemare sono 369 e i Comuni che hanno già l’accoglienza diffusa saranno esclusi (Turriaco ad esempio non 'rischia', v. articolo sopra).

Raugna preferirebbe parlare «di imprescindibile solidarietà » anziché di numeri, ma la paura ha sortito il suo effetto e il comitato no-accoglienza ha indetto un referendum di iniziativa popolare. Questo il quesito: 'Siete d’accordo con la decisione di accogliere richiedenti asilo, profughi, immigrati irregolari e clandestini?'. «Ma con un quesito così mal posto il referendum verrebbe invalidato», obietta il sindaco, che riformulerà il quesito sulla vera decisione, il sì o il no allo Sprar.

A Grado attualmente ci sono zero stranieri, eppure si manifesta al grido «rimandemoli tuti indrio», e se una dozzina di sindaci hanno sfilato in appoggio a Raugna «è un’onta che va lavata» come ai tempi in cui «Attila nella sua sortita in laguna era stato preso a calci in c...». Tutto per 18 persone su 8.400 abitanti, che in estate sono un milione e mezzo. «Un falso problema», conclude Raugna. E rilancia: «Faremo incontri pubblici, spiegheremo alla gente, la ragione vincerà su paure montate ad arte».

Gradisca, il centro che chiude e i 650 senza destinazione

Il Cara di Gradisca? «Altro che la Galleria Bombi di Gorizia! È qui il vero nodo di tutto il caos isontino». Lo scaricabarile. La destinazione finale di centinaia di indesiderati. Il centro della vergogna che tutti criticano ma che in fondo nessuno ha interesse a che chiuda. E a dirlo è Francesca Colombi, assessore ai Servizi sociali, la persona che più da vicino si è sempre fatta carico delle situazioni più difficili. Il Cara di Gradisca, Centro di accoglienza richiedenti asilo, conta oggi 650 ospiti stranieri su 6.500 abitanti. «Significa uno su 10, uno sproposito, anche perché sono persone che dalle ore 8 alle 20 girano senza fare niente», denuncia l’assessore, giunta di centrosinistra, ma nessuna voglia di giustificare ciò che non va.

Il ministro dell’Interno Minniti ha annunciato che entro il 31 dicembre 2017 il Cara chiuderà, ma in pochi ci credono, anche perché per sistemare altrove i 650 richiedenti asilo bisognerebbe che tutti i Comuni supplissero un po’ per ciascuno, ma solo la metà aderisce allo Sprar. E così il gigante bianco e decadente, con i suoi fili spinati, i fari e le torrette, rischia di restare la panacea di tutti i mali, la 'soluzione' ogni volta che i migranti vanno spostati per dare respiro a un altro dei paesi isontini. «Nel 2013 in effetti qui c’era un Cie, Centro di identificazione ed espulsione, un vero e proprio carcere – conferma Colombi –, per quelli che la Bossi-Fini chiamava clandestini. Poi Renzi li ha derubricati a 'detenuti amministrativi', ma sempre detenuti erano ». In agosto 2013 durante una sommossa e un incendio appiccato dai rivoltosi ci scappa il morto, il Cie chiude e il governo fa un bando da 800mila euro per il ripristino, mentre Comune, Regione e associazioni manifestano contro la riapertura di un luogo in cui i minimi diritti umani vengono negati. Ma Gorizia preme, 'dublinanti' e rotta balcanica riversano sempre nuovi arrivi, così nel 2015 la prefettura riattiva la parte del Cie ma con le gabbie aperte dalle 8 alle 20. «È stata la falla nella diga – continua l’assessore –, con un crescendo di arrivi inarrestabile. La prefettura ha grosse responsabilità, lo Stato è assente, non può lasciare che a scegliere se fare o no lo Sprar siano i Comuni e non può lasciare soli i sindaci coraggiosi che dicono sì».

Se la Galleria Bombi di Gorizia è il simbolo del degrado disumanizzante, il Cara di Gradisca è poco meno di un inferno, con i migranti accalcati la notte in quelle che erano le gabbie del Cie. Se davvero a fine anno sparirà, al suo posto secondo il decreto Minniti sorgerà un Cpr, Centro di permanenza e rimpatrio, «praticamente un Cie più umano, con 100 presenze al massimo, ma sempre detenuti in gabbia». E intanto? I 650 di Gradisca bivaccano sulle rive dell’Isonzo e lì si cucinano i pasti. «Ora almeno ho fatto loro dei corsi per la raccolta differenziata con Legambiente e anziché cumuli di rifiuti ci sono cumuli di sacchi neri... Il governo non solo non ci aiuta, ma pone limiti burocratici», al punto che i lavori volontari gratuiti, come fare pulizia sul greto, si sono arenati.

Resistono solo gli 'Orti di pace' della Caritas, che ha diviso in lotti un ampio terreno e lo fa coltivare ai migranti con una copertura assicurativa. «La cosa bella è che i raccolti degli extracomunitari vanno agli Empori solidali della Caritas». Cioè agli italiani bisognosi.

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