mercoledì 10 agosto 2016
Il Viminale a Rocco Mangiardi, testimone di Lamezia Terme
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«Le confermiamo la scorta ma la macchina la deve mettere lei». No, non è uno scherzo, ma quanto si è sentito comunicare quattro giorni fa Rocco Mangiardi, imprenditore di Lamezia Terme, da sette anni sotto tutela dopo la decisione di denunciare gli inviati del clan Giampà che erano venuti a chiedere il pizzo. Per il ministero dell’Interno ha diritto a un uomo di scorta (finora ne aveva due) ma, come si legge nella comunicazione, «la misura sarà attuata mediante l’utilizzo di un’autovettura di proprietà dell’interessato».

 

Ovviamente non blindata. E visto che Rocco non guida, toccherà all’unico poliziotto farlo, con evidenti problemi in caso dovesse intervenire. Ma lui non arretra. «Malgrado quello che mi sta succedendo non cambio idea – ci dice con un sorriso –. Anche se mi lasciano senza tutela. Piuttosto è una questione di principio. Lo Stato non può pretendere che per tutelarmi io gli compri la macchina». Tutto comincia nel 2006, quando Rocco fa nomi e cognomi dei mafiosi inviati dalla cosca. Così nel maggio 2007 scatta l’"Operazione progresso". Il 9 gennaio 2009, nell’aula del tribunale indica i suoi estorsori, guardandoli in faccia. Non era mai successo nella sua città. Testimonianza preziosissima.

 

I quattro esponenti del clan vengono condannati a pene pesanti, confermate fino in Cassazione. La tutela è arrivata pochi giorni dopo la testimonianza. «Mi fecero capire che c’era anche la possibilità di andare via ma io sono rimasto. Non gliela dò vinta. Di mestiere faccio l’imprenditore e voglio continuare a farlo nella mia città. Non sono testimone di professione». Gli assegnano un’auto blindata e due uomini. «Il tempo di un po’ di passerelle di politici che volevano incontrarmi. Dal secondo anno siamo scesi a una Fiat Stilo. Io non mi sono mai lamentato ma nessuno in Italia ha una Stilo, non blindata e che passa più tempo in officina».

 

Ci sarebbe da ridere, se non fosse che Rocco non si è certo fermato. «Ogni nuova inchiesta mi costituisco parte civile». Ed è particolarmente orgoglioso perché «un ragazzo si è pentito anche sulla base di quello che ho detto nel processo. In aula mi ero sfogato col boss: "Non ti avrei mai dato i soldi per far sì che tu pagassi ragazzi come questo per mettere bombe. Io pago chi lavora con me". Il ragazzo si è addossato due omicidi e da lì si è smantellata la cosca». E i mafiosi non hanno dimenticato. «Due anni fa sui cassonetti davanti a casa hanno dipinto due grandi croci rosse.

 

Ho poi avuto varie lettere ma non l’ho mai fatto sapere. I mafiosi vogliono che si sappia per terrorizzare la gente». Anche perché, avverte, «Lamezia non è certo tranquilla. È un focolaio perché ancora pagano tutti. E poi ci sono i processi in corso». In tutto questo è arrivata l’incredibile richiesta del ministero. Come se non fosse più a rischio. «Per loro evidentemente no. Ma non c’è una motivazione. Credo che in questo modo vogliano che io rinunci alla tutela. Ma non l’ho chiesta io. Si prendano loro la responsabilità! E poi non credo sia finita la guerra alla ’ndrangheta. O no? Quindi se devono colpire un simbolo, sono io o don Giacomo Panizza (prete impegnato sul fronte della legalità, ndr), con cui io faccio tante iniziative», incontrando scuole, associazioni, in Calabria e fuori regione. Eppure «dopo tante passerelle non è venuto nessuno a chiedermi "come stai?". Solo alcune persone qui a Lamezia, in particolare i familiari delle vittime. Sono loro la mia tutela.

 

Sarebbe tanto importante per la mia famiglia una pacca sulla spalla da parte dello Stato, far capire alla gente che loro ci sono». Anche perché, ci tiene a sottolinearlo, «io come testimone di giustizia non ho mai chiesto un centesimo allo Stato. Lo dico con gioia e con dignità. Anche se economicamente per me è un momento difficile, io e la mia famiglia preferiamo stare in silenzio». Però, aggiunge subito, «io ci sono sempre, adesso ancora di più. Sono tranquillo, un po’ arrabbiato, ma niente di che. Non voglio fare allarmismi. Lo Stato c’è sempre, è fatto di uomini e qualcuno può sbagliare, ma dobbiamo credere nello Stato, anche se in questo momento sento un grande vuoto».

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