mercoledì 13 marzo 2013
Liste d’attesa, ticket, carenza di servizi territoriali: le ipotesi di rivedere il servizio sanitario si scontrano con vecchie inefficienze. Bonati (Mario Negri): dopo i tagli serve un approccio qualitativo.
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Guardare alla sanità con gli occhi del cittadino riserva non poche sgradite sorprese. Liste d’attesa, ticket, carenza dei servizi territoriali rendono sempre più difficile l’accesso a prestazioni che dovrebbero essere garantite. E la riduzione delle risorse a disposizione sembra prefigurare difficoltà ulteriori (qualcuno ipotizza la necessità di un intervento di fondi assicurativi), se non si inverte una tendenza culturale ad anteporre le valutazioni economiche a quelle sanitarie. Forse il compito principale per una futura riforma della sanità. «Negli ultimi anni – sottolinea Walter Ricciardi, direttore dell’Osservatorio nazionale sulla salute nelle regioni italiane, Università Cattolica di Roma – si è ridotto l’accesso dei cittadini alle prestazioni sanitarie, anche tenendo presenti le differenze regionali. Non a caso l’ultimo rapporto del Tribunale per i diritti del malato presenta in copertina un ospedale con un lucchetto e una lunga fila di cittadini davanti. Così come nell’ultima graduatoria sull’Europa, l’Ocse ha collocato l’Italia al 24° posto per il contesto dei servizi sanitari forniti ai propri cittadini. E non per problematiche di carattere tecnico: medici e strutture buone esistono, quanto per l’organizzazione del sistema». Un deficit segnalato anche da Maurizio Bonati, direttore del dipartimento Sanità pubblica dell’Istituto di ricerche farmacologiche “Mario Negri” di Milano: «Complice la regionalizzazione, in sanità continua a mancare una strategia comune. Come confermano alcuni indicatori: per esempio, non si riescono ad abbattere i flussi di migrazione sanitaria, tipicamente dal Sud al Nord. Penso soprattutto a quella pediatrica, che si ferma un po’ al Bambino Gesù, ma poi guarda al Gaslini (Genova) o al Burlo Garofolo (Trieste) o al San Gerardo (Monza) per l’oncologia. E anche per i tumori dell’adulto, pur essendoci quattro Irccs oncologici al Centrosud, gli spostamenti verso il nord sono una costante». Differenze si registrano anche sul consumo di farmaci: «A dispetto del clima – rileva Antonio Clavenna, farmacologo ricercatore presso il Laboratorio materno-infantile del “Negri” – il consumo pediatrico di antibiotici è maggiore al Sud rispetto al Nord, i bambini che ne assumono almeno uno in un anno sono il 36% in Lombardia, quasi il 70% in Puglia». I servizi territoriali, il presidio più vicino al cittadino, continuano a recitare il ruolo della cenerentola, vittime di disorganizzazione, mancati finanziamenti e cattive abitudini: «Anche certe auspicate riforme vanno finanziate – ricorda Ricciardi –. Penso agli studi associati di medici di famiglia aperti sulle 24 ore: se non hanno a disposizione infermieri e attrezzature, il paziente con un dolore toracico si recherà sempre al pronto soccorso». E se le spese per la sanità territoriale sono maggiori di quelle ospedaliere (con eccezioni, vedi Lazio), «il problema resta il raccordo tra le due realtà – aggiunge Ricciardi – con il cittadino che dopo le dimissioni non trova quel continuum di assistenza di cui avrebbe bisogno. La realtà è che il sistema è disegnato secondo criteri arcaici, e non guardando ai bisogni di salute della popolazione». Come conferma il fatto, aggiunge Bonati, che azienda ospedaliera e azienda sanitaria locale, presenti su uno stesso territorio, guardano ciascuna solo ai propri bilanci: «Del resto, e lo dimostra la recente classifica dei direttori generali in Lombardia, i dirigenti sono valutati per il raggiungimento degli obiettivi, che sono in massima parte di budget. Senza dimenticare che i medici di famiglia non mettono piede nell’ospedale. Così come non si capisce perché le sale operatorie non possano funzionare al pomeriggio, come succede nel privato». Rare sono le operazioni che coordinino bene l’offerta sanitaria: «Anche la chiusura dei piccoli ospedali, spesso osteggiata dalle popolazioni, può essere realizzata – spiega Ricciardi – se si offrono servizi più efficienti. Penso all’esempio virtuoso dell’ospedale della Versilia, collocato in posizione baricentrica rispetto a quattro piccoli presidi che sono stati chiusi». Migliorare omogeneamente l’offerta sanitaria è reso difficile anche dal contenzioso Stato-Regioni: «Nella riduzione dei posti letto ospedalieri – aggiunge Ricciardi – il ministero aveva dato criteri e requisiti minimi per organizzare i reparti ospedalieri, ma sono stati rifiutati dalle Regioni». Nella sanità si rispecchiano i problemi del Paese, sostiene Ricciardi: «Fuori dalle ideologie, continua a essere necessaria una collaborazione tra pubblico e privato (anche in Svezia stanno elaborando modelli), ma servono regole chiare per tutti, con le regioni che le fanno rispettare. La frammentazione e le liti Stato-Regioni non portano benefici: il primo distribuisce (poche) risorse ma non controlla, le seconde hanno diritto di veto, ma non i fondi per operare bene». Se vogliamo mantenere la qualità del nostro sistema sanitario, conclude Bonati, «occorre ottimizzare le risposte proprio guardando alla domanda, alle necessità di salute. E non limitarsi a valutare i costi immediati, ma al guadagno di salute complessivo della popolazione. Anche se questo richiede più tempo di quanto solitamente i politici siano disposti ad attendere».
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