venerdì 28 dicembre 2018
Dal proiettile vagante al “Vestuti” di Salerno nel 1963 (vittima Giuseppe Plaitano) al caso di Gabirele Sandri nel 2007 a oggi. allo stadio entra chi non dovrebbe e le autorità puniscono gli altri
Curva chiusa agli ultrà (Ansa)

Curva chiusa agli ultrà (Ansa)

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Belardinelli Daniele, 35 anni, Morte a San Siro. Potrebbe essere il titolo di un giallo di Scerbanenco, uno che ha scritto che I milanesi ammazzano al sabato e dopo questo fattaccio da ultimo stadio, il sequel potrebbe essere I napoletani uccidono a Santo Stefano. Il Boxing Day all’italiana si colora di melodramma, come da copione: siamo o non siamo alla Scala del calcio? Tanto da noi le cose non cambieranno mai finché perdura il dominio dei luoghi comuni che sono molto più affollati delle curve.

Nella Repubblica fondata sul pallone, si vive, si pensa e si agisce sempre e soltanto quando veniamo spazzati via dall’onda emotiva, per il resto del tempo si fa sterile tiki-taka demagogico: su violenza, razzismo, migranti... Perciò dopo la morte assurda – e puntualmente amplificata dalla massa rumorosa dei repubblicani-pallonari – ecco spuntare, in pieno tempo supplementare, il cartello luminoso degli “indignados” dell’ultima ora sul quale sta scritto il rituale “Tolleranza Zero”. No, anzi, in Zona Gravina (vedi il presidente della Federcalcio) si invoca la più innovativa e al doppio passo con i tempi “soluzione radicale”.

La prima decisione radicale è stata quella della Questura di Milano: vietate le trasferte ai tifosi dell’Inter e chiusura della Curva Nord nerazzurra fino a tutto il mese di marzo. Il mese delle Idi, si capisce, qui si va ancora di Diritto Romano e di legge del taglione: puncicate fuori dall’Olimpico, coltellate alla fermata di San Siro. I colpevoli poi, magari, la faranno franca.

Punita invece, senza appello, la maggioranza dei curvaroli canterini – non ultrà violenti – che pagano regolare abbonamento, che non delinquono, che magari hanno anche un lavoro stabile senza dover chiedere reddito di cittadinanza, e che per ogni partita della Beneamata si sobbarcano costi e voli dalla Sicilia o si avventurano per migliaia di chilometri in macchina, arrivando anche dall’estero. Ragazzi, ragazze, tifosi veri e appassionati che non hanno niente a che fare con spedizioni punitive, regolamenti di conti in curva, con ’ndrine e mafie che si annidano sui gradoni e dalla postazione di comando della balaustra controllano quel “cartello” che va dallo smercio dei biglietti al traffico della droga.

Ma questo “ultimo stadio”, senza di mezzo il tifoso morto e le sue comete, non fa notizia, non viene sempre indagato a fondo e non richiede la soluzione radicale. Se i nostri maître à penser nazionalpopolari si sono appena sintonizzati sul Paese Reale, che respira e vomita violenza ovunque dalle aule di scuola alle periferie degradate, gli ricordiamo che il primo vero “martirio” da stadio risale al 28 aprile 1963.

Niente luci a San Siro ma guerriglia in campo nel vetusto “Vestuti” di Salerno (si giocava Salernitana-Potenza). Per un rigore contestato, volò di tutto, compreso un proiettile sparato da un poliziotto che uccise il 48enne tifoso salernitano Giuseppe Plaitano. Stessa sorte toccata al tifoso laziale Gabriele Sandri l’11 novembre 2007. Fatalità, 23 “morti da stadio”, compresa quella dell’interista Belardinelli, da mezzo secolo in qua. Verrebbe da dire che sono anche “poche”, ma la coscienza popolare allora grida: «Tutte morti evitabili».

Già, ma prima si dovrebbe evitare che ultrà – come la stessa vittima di San Siro – possano avere tranquillamente accesso allo stadio anche dopo essere stati reiteratamente condannati con tanto di Daspo. Si dovrebbe evitare che, indisturbatamente, da Oltralpe o dalle coste calino, con proclami annunciati e pubblicati sui social – quindi visibili alla Polizia postale –, orde barbariche di ultrà in fuori gioco e “stranieri” (quelli atalantini a Roma a supporto dei gemellati di Francoforte e a Milano quelli del Nizza affiliati agli interisti) per azioni che sono blitz militari.

E non è questione di stadi più moderni e sicuri. Nel Regno Unito disinfestato da decenni, dopo la strage dell’Heysel, dalla putrida piaga degli hooligans, la Premier si disputa in stadi-salotto, eppure gli scontri tra opposte tifoserie avvengono ancora e nei posti più assurdi e distanti dagli impianti di gioco (vedere documentari di Fox Tv).

Non fermiamoci dunque a quel che resta della commedia all’italiana del calcio. Che rimane l’ultima rappresentazione “sacra” del nostro tempo – come sosteneva Pasolini – e anche l’ultimo avamposto in cui si esercita il potere e il sopruso.

I capi ultrà della “Tolleranza Zero”, alla fine scopri infatti che sono gli stessi uomini al potere. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini, che adesso si erge a paladino dell’antirazzismo, deve aver cancellato dalla memoria i cori da “ultrà milanista” contro i napoletani, cantati allegramente al raduno della Lega (ancora solo Nord) a Pontida: video, in Rete, luglio 2009. Da dieci anni a questa parte nulla è cambiato, nonostante leggi più severe, partite a porte chiuse e l’istituzione di un Osservatorio sul razzismo e l’antirazzismo nel calcio tenuto in vita dallo stoico sociologo Mauro Valeri.

Giusto e doveroso indignarsi per i cori razzisti contro il senegalese del Napoli Koulibaly (bersaglio di tutte le curve, come fu Balotelli), così come sarebbe giusto anche «sospendere la partita», come invoca mister Carletto Ancelotti (salvo pensare a un piano adeguato di evacuazione dello stadio per evitare la strage). Ma tutto questo può accadere soltanto in un Paese civile e non violento, quindi: non ora e non qui, in questa Repubblica perennemente nel pallone.

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