domenica 20 dicembre 2020
Le giornate passate in viaggio, tra le montagne dell’Appennino piacentino, per visitare gli anziani ammalati di Covid nei vecchi casali e nelle cascine. «La prima medicina? È la nostra presenza»
L’infermiera Giorgia Boselli (al centro) con due sue colleghe dell’Usca

L’infermiera Giorgia Boselli (al centro) con due sue colleghe dell’Usca - .

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Nei giorni della grande nevicata, in certe stradine passava solo la loro macchina. Su richiesta dei sindaci, erano state liberate dai cantonieri per consentire a medici ed infermieri di raggiungere le frazioni più isolate. «Le persone ci aspettano sempre, in montagna questo vale ancora di più. Magari siamo i primi che vedono dopo giorni e giorni di isolamento ».

La dottoressa Sara Resi, 34 anni, all’ultimo del triennio di formazione per medici di medicina generale, da due mesi fa parte delle Usca, le Unità di continuità assistenziale che seguono al domicilio i pazienti malati di Covid- 19. Piacenza “primogenita d’Italia” per aver votato, nel 1848, l’annessione al Piemonte, in questo 2020 segnato dalla pandemia s’è guadagnata il titolo di primogenita delle Usca, nate a marzo per intuizione dell’oncologo Luigi Cavanna, anche lui nato e cresciuto in montagna, quindi ben consapevole di cosa significa assicurare un’assistenza nelle zone più lontane dagli ospedali.

Ogni giorno, dalla Centrale 19 di Largo Anguissola, punto di raccolta delle segnalazioni e di monitoraggio telefonico, escono sei squadre, composte, a seconda delle necessità, da due medici, due infermieri o da medico e infermiere. Coprono tutto il territorio provinciale, 2.589 chilometri, un terzo in pianura, due terzi di collina e montagna. Nei piccoli Comuni che più soffrono le misure restrittive imposte dal Covid, i professionisti dell’Azienda Usl incrociano luminarie, alberi, presepi, che la neve trasforma in paesaggi da fiaba. Ma c’è poco di poetico in questo Natale senza il consueto ritorno di figli e nipoti che ripopolano i paesi di affetti e al contempo aiutano le attività commerciali a tirare il fiato fino a primavera. Così, tra le poche auto “forestiere” che si incrociano, ci sono le Panda bianche delle Usca.

Un’altra Unità di continuità assistenziale durante una visita a un paziente in isolamento domiciliare

Un’altra Unità di continuità assistenziale durante una visita a un paziente in isolamento domiciliare - .

«È faticoso, sappiamo quando usciamo, non quando rientriamo, però dal punto di vista umano e professionale è impagabile» evidenzia la dottoressa Resi. A marzo si è trovata a sostituire il suo medico di famiglia, uno dei tanti contagiati visitando un paziente. «È stata un’esperienza dura, mi ha messo alla prova – non nasconde – . Però adesso mi aiuta nel rapporto con i colleghi sul territorio, con i quali teniamo un contatto stretto. Ho provato quanto è difficile star dietro a tutto: seguire i malati cronici, gestire i sospetti Covid, controllare le terapie. Lavorare in sinergia con i medici di famiglia è fondamentale per il bene dei pazienti. Quando si parla di montagna diventa cruciale, bisogna fare in modo che tutto torni, dalla prescrizione per far arrivare l’ossigeno a domicilio alla rivalu- tazione dei farmaci».

Del resto, lei stessa dopo la laurea in Medicina nel 2014 ha scelto questa strada, anziché l’ospedale. «Mi piace visitare le persone a casa, conoscere le loro storie: da ognuna imparo qualcosa. Le necessità sono diverse, ma per tutti – ribadisce – conta una cosa sola: che il medico ci sia. La prima cura è la nostra presenza ». Si è spinta fino a Cassimoreno, 15 abitanti in alta Val Nure, un territorio segnato pesantemente dallo spopolamento.

«L’età media è alta e proprio gli anziani sono i più vulnerabili. Non vogliono abbandonare la loro casa, si affidano totalmente a noi». Quando si varca la porta di una casa, si entra dentro un vissuto di paure e speranze. «L’altro giorno un signore mi ha detto: 'Lei mi è simpatica perché è una comandina come mia figlia'. Mi capita di emozionarmi. Ricordo una coppia di anziani, non stavano bene. L’unica richiesta che mi hanno fatto è di non separarli. Mi hanno fatto pensare a quel che conta davvero nella vita: la famiglia, lo stare insieme». L’infermiera Giorgia Boselli non riesce a togliersi dalla testa i due fratelli – uno di 84, l’altro di 90 anni – rimasti soli nella loro cascina sperduta tra Pecorara e Piozzano, in Val Tidone, perché la moglie del più giovane è ricoverata in ospedale e il figlio vive e lavora a Milano. Un panorama mozzafiato, ancora coperto di neve, nel silenzio totale anche della natura. «Siamo andati a fare il tampone: ci hanno accolti come fossimo Dio in terra – usa proprio questa espressione –. Uno aveva un pochino di febbre, quindi abbiamo lasciato il saturimetro, spiegando bene come usarlo.

Ma la loro unica preoccupazione era per la signora. 'Non può guardare lì dentro se c’è qualche novità?', mi hanno chiesto, indicando il mio tablet ». Giorgia, 51 anni, bazzica nelle corsie «a contatto con la sofferenza» da quando ne aveva 16, allieva della scuola infermieri. Da settembre esce con le Usca, dopo 28 anni nel reparto emodialisi. «Ho visto pazienti spazzati via dal Covid in un soffio. Anch’io ho perso la mamma in un giorno e mezzo. Ero spaventata all’idea di ributtarmi in questa situazione, ora capisco che è un grande servizio. Le persone ci tengono a esprimere la loro gratitudine: a Cerignale un anziano voleva a tutti i costi metterci a tavola». È arrivata a fare 200 chilometri al giorno. «Pensare – ride – che odiavo guidare la macchina».

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