sabato 2 dicembre 2017
Carlo Galimberti, psicologo sociale: crescere è possibile. «I social? Più che una piazza sono diventati un palcoscenico»
Carlo Galimberti

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Adesso come ce la caviamo se, come suggerisce il Censis, il nostro immaginario collettivo è «privo di forza propulsiva»? Senza forza propulsiva non si va da nessuna parte. Siamo condannati a restare fermi, senza sogni, senza speranze, senza 'visione'... Carlo Galimberti, professore di psicologia sociale all’Università Cattolica di Milano, sorride: «Il Censis lavora ottimamente. Però...».

Però?
I dati del Censis colgono, molto bene, i macroscenari. Potremmo dire che sono una sorta di collage di carotaggi, non una mappa compiuta. Questi dati, importanti, non sono tutta la realtà.

E allora che cosa ci dicono?
Ci dicono, ma non usi questa espressione, come gira il fumo. In quale direzione ci stiamo orientando.

Insomma, siamo o non siamo privi di propulsione?
Vorrei spiegarmi meglio. I dati, anche questi sull’immaginario collettivo, parlano delle percezioni, non dei comportamenti. Occorre distinguere tra ciò che un italiano, interrogato secondo tutte le regole da un istituto di ricerca, dice di se stesso e di ciò che fa. Noi veniamo a sapere come egli percepisce se stesso, ma non 'che cosa pensa'. Il pensiero comporta un ragionamento, impossibile in questa circostanza.

Ma quanto ci viene suggerito su questo immaginario collettivo spento deve indurci a essere ottimisti o pessimisti?
Sono abituato a vedere il bicchiere né solo mezzo pieno né solo mezzo vuoto, ma tutto intero, come esso è. E allora, le otto voci della «mappa del nuovo immaginario», a prescindere dalle percentuali, possono essere divise in due gruppi. Social network, selfie, smartphone e tatuaggi nel primo, l’area della comunicazione; posto fisso, casa, automobile e titolo di studio nel secondo, l’area dei beni funzionali.

Sono i beni che consentono di accedere ad altro?
Anche a ciò che consente di comunicare. Ma oggi la comunicazione utile a costruire il mito diventa mito essa stessa, una sorta di mito autopoietico, che si crea da sé.

Senza bisogno delle ideologie che ci imponevano i miti?
Proprio così. E questo, a proposito del bicchiere, ha un aspetto positivo e uno negativo. Positivo: abbiamo scoperto il gioco, adesso sappiamo di essere noi gli artefici dei miti. Negativo: questa comunicazione è sempre più mirata a veicolare se stessi, è autoreferenziale, una comunicazione in cui l’individuo si specchia. O, se preferiamo, osserva il proprio ombelico. Spesso i social network, inutile negarlo, più che una piazza dove si dialoga sono un palcoscenico dove l’individuo rappresenta se stesso e cerca consensi.

Difficile tenere insieme le due aree.
Difficilissimo, e temo non ci siano soluzioni pronte e interpretazioni definitive. Credo siamo possibili due letture: la prima mette al centro il soggetto, che comunque sta cercando di costruirsi. Ma, ed ecco la secondo lettura possibile, scopre di essere un soggetto debole, perché deboli sono gli strumenti a sua disposizione.

Ma il mito non può dare forza propulsiva all’immaginario collettivo? È davvero anch’esso così debole?
È come se i miti avessero smarrito il rapporto con l’azione e accresciuto il valore della rappresentazione. L’individuo mette in scena se stesso.

E questa messa in scena si esaurisce lì senza determinare un’azione, un cambiamento?
Torniamo al punto di partenza. Stiamo parlando di macroscenari. Guardiamo la luna con il telescopio, ma potremmo anche osservare il suolo con il microscopio.

E che cosa scopriremmo? Io sono abituato a studiare i piccoli gruppi. E in essi scopro energie che, se fossero canalizzate, creerebbero le occasioni giuste di crescita. Lo osservo ogni giorno nei miei studenti all’Università. Le energie ci sono eccome, e ci potranno salvare. Si tratta di liberarle.

Proviamo a indovinare: qui siamo oltre le due aree...
Sa che cosa mi piace dire ai miei studenti? Mordete, mordete la realtà.

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