Era il 2 giugno 1981 e al Palalido di Milano gremito di giovani si celebrava la «Festa della vita». Era passato meno di un mese dal 17 maggio, quando il referendum parzialmente abrogativo del Movimento per la Vita sulla legge 194 del 22 maggio 1978 era stato respinto, registrando tuttavia una percentuale significativa di consensi (il 32%). Il clima di quell’happening al Palalido non aveva niente da invidiare alla mega-riunione del 19 ottobre 1980, quando trentamila giovani si erano riuniti attorno a Madre Teresa di Calcutta e a Dom Helder Camara, come ricorda Carlo Casini in Diritto alla vita e ricomposizione civile, per «collocare il referendum richiesto dal Movimento per la Vita non nella prospettiva del "contro", ma in quella del "per", non nell’ottica di una limitata modifica legislativa, ma in quella di un respiro culturale più vasto, capace di mettere in discussione tante tranquillità e di accettare fino in fondo la provocazione di ogni frontiera dove l’uomo è in pericolo».Dunque quel 32% non aveva mutato per nulla motivazioni e determinazione di una battaglia in difesa della persona, che ha come cifra ineludibile l’affermazione della sua dignità dal concepimento e fino alla morte naturale. Quel 17 maggio, prima ancora che si conoscesse il risultato della consultazione, Avvenire uscì con un articolo del presidente del Movimento per la Vita programmatico: «L’azione per la vita è sempre una vittoria». La settimana successiva Il Sabato titolava il fondo: «Ricominciamo da 33». E di fatto l’estate successiva vi fu una esplosione di Feste della vita, di cui quel meeting al Palalido fu il clou. E ancora Casini legge nella partecipazione appassionata di moltissimi italiani ai tentativi, purtroppo inutili di salvare un bambino, Alfredino Rampi, precipitato in un pozzo, il segno che a un mese di distanza da quella consultazione elettorale, «la vita è un valore unificante» del Paese.Oggi il tema della vita tende ad assumere il valore di «principio non negoziabile», agli occhi dei cattolici e di alcuni laici. Chi guardasse ancora con un certo scetticismo a questo fenomeno potrebbe forse trovarne motivazioni valide se con sguardo spassionato rileggesse quegli anni in cui in Italia si aprì la strada all’aborto. Non si fa fatica a individuare per la prima volta all’opera un intricato nodo di derive politiche, sociali, culturali – per non evocare dimensioni ancor più profonde della persona umana – che rivelano oggi tutta la loro portata nefasta, oltre al tragico bilancio di quella legge ben oltre cinque milioni di bambini uccisi nel ventre della madre.Va detto comunque che i referendum erano due. Il primo – quello radicale – voleva una completa privatizzazione dell’aborto, coerentemente con la linea adottata oggi da Pannella, Bonino e compagni sulla Ru486 concepita come strumento per aprire ulteriormente le maglie della 194 verso l’aborto. Quel quesito raccolse soltanto l’11% dei voti. Era intervenuto poi quello del Movimento per la Vita, mirante a far cadere le parti più inique della legge approvata tre anni prima.Quegli anni e giorni furono carichi di eventi drammatici per gli italiani e i cattolici in particolare. Quattro giorni prima del referendum si verificò in piazza San Pietro l’attentato a Giovanni Paolo II. Nei giorni precedenti il Pontefice polacco era stato oggetto di irridenti vignette di Repubblica proprio per il suo atteggiamento in difesa della vita. Peraltro l’approvazione definitiva della legge, il 18 maggio 1978 (per essere promulgata il 22), si verificava nove giorni dopo l’omicidio del presidente della Dc, Aldo Moro, che oggi qualcuno ritiene avviò la dissoluzione della Dc. Chi volesse trovare però filoni di interpretazione politica più immediata vedrebbe materializzarsi proprio in quegli anni la svolta laicista-radicale del Pci. Enrico Berlinguer, che all’esordio della sua carriere politica indicava alle giovani comuniste l’esempio di santa Maria Goretti, in una storica intervista a Eugenio Scalfari indicava come esemplare la battaglia sostenuta contro il referendum: «Chi ha più lavorato per il "no" sono state le donne, tutte le donne, e i comunisti».In quella esternazione il leader di Botteghe Oscure rivendicando la «diversità» morale dei comunisti al confronto degli altri partiti considerati «macchine di potere e di clientela», aggiungeva: «Sia nel ’74 per il divorzio sia, ancor di più, nell’81 per l’aborto gli italiani hanno fornito l’immagine di un Paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso».Alla luce di quanto avvenne dopo nel rapporto tra le istituzioni della Repubblica e delle formazioni partitiche, quella intervista può dare spunto Aa riflessioni propriamente politiche. Nondimeno è la riprova che l’etica del militante non porta lontano, soprattuto quando crede di poter fare carta straccia della legge naturale. In questo equivoco furono indotti vari cristiani: Franco Rodano, il leader dei cosidetti 'cattolici comunisti', scrisse sul Paese del giorno del referendum: «Non è in gioco solo la legge», aveva affermato che «nel deprecabile caso (della vittoria del sì) innazitutto uscirebbe sconfitto il movimento emancipatore delle donne italiane, una delle più nuove, determinanti alleanze della classe operaia».Giocava allora una lettura a senso unico della questione operaia, come oggi può giocare una interpretazione fuorviante del valore della libertà. Ma in questo senso il profetico magistero di Paolo VI, culminato nella Humanae vitae , e l’opera infaticabile di Giovanni Paolo II con l’
Evangelium vitae, chiarivano in modo inequivocabile che come un secolo fa a essere oppressa era la classe operaia, «a essere calpestati nel diritto fondamentale alla vita è oggi una grande moltitudine di esseri umani deboli e indifesi, come sono, in particolare, i bambini non ancora nati.