venerdì 27 dicembre 2013
Ferma la procedura dell'asta, il governo rinuncia a 800 milioni. Gli italiani sono subissati di tasse, mentre non si procede sull’ex "beauty contest". Il regolamento? È fermo a Bruxelles.
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Ci sono almeno 7-800 milioni di euro che si potrebbero incassare, eppure non lo si fa. In tempi di affannosa ricerca di introiti, di contribuenti trattati come "bancomat" dallo Stato e di nuove tasse escogitate (come la Web tax), la vicenda dell’asta delle frequenze tv merita di essere ripescata dal dimenticatoio in cui è caduta. Unico frutto forse, a ben vedere, della stagione (già archiviata) delle larghe intese con Berlusconi: per non alterare delicati equilibri politico-mediatici, meglio far finta di niente e andare avanti senza fare l’asta. Anche a costo di rinunciare a una boccata d’ossigeno per i conti (oltre che a un po’ di pluralismo antitrust). Capace, a esempio, di far recuperare una somma pari al triplo di quanto sarebbe necessario per sanare la mini-Imu che gli italiani proprietari di casa dovranno pagare invece il 24 gennaio. Una metafora, insomma, della situazione italiana in genere, con l’interesse generale ad "andare avanti" che si scontra con lo status quo.Ci fu un tempo, invece, in cui il caso-frequenze è stato di grande attualità: era più o meno un anno fa, quando il "super-ministro" dell’epoca (del governo Monti) Corrado Passera decise di passare al meccanismo dell’asta onerosa, cioè a pagamento, abbandonando la precedente logica del beauty contest, definizione "diplomatica" per non dire cessione gratuita. L’ipotesi dell’asta era cominciata a circolare, del resto, già nell’agosto del 2011, dopo il varo del decreto "tutto-tagli" del ministro Giulio Tremonti. Questa inversione di rotta, però, si è arenata sulle secche di una duplice burocrazia, statale e comunitaria. Ufficialmente, infatti, è sin dallo scorso aprile che il regolamento attuativo per la gara, approvato dall’Agcom (la nostra Autorità per le comunicazioni), si trova all’esame della Commissione europea. L’ultima traccia pubblica di dibattito sul tema risale a fine ottobre scorso quando Antonio Catricalà, vice-ministro dello Sviluppo economico (e "tecnocrate" di lungo corso, già ai tempi del governo Berlusconi) affermò che «non c’è tutta questa fretta per fare l’asta, perché non so se sia il momento migliore per vendere frequenze che valgono molto, mentre i soldi scarseggiano».Ragionamento ineccepibile, quello di Catricalà; non fosse che i tempi migliori lo Stato se li è fatti "scappare" da sotto il naso. «Quello di Bruxelles – osserva oggi Vincenzo Vita, ex sottosegretario (Pd) alle Comunicazioni – è un parere che nessuno chiede indietro. Perché la verità è che agli attuali operatori, Rai e Mediaset in testa, sta bene la situazione che c’è, un po’ per rinviare una uscita di cassa non gradita di questi tempi, un po’ per evitare l’eventuale arrivo di un nuovo competitor».Fra una cosa e l’altra è da 4 anni, dal 2009, che si parla di questa asta. Quell’anno si avviava il passaggio dal sistema analogico al digitale e si puntava a un incasso consistente: si parlò anche di 2,4 miliardi di possibile gettito, "compatibile" d’altronde con i 4,1 miliardi che furono portati a casa nel 2010 con la parallela asta per le comunicazioni mobili "Lte". Il governo Berlusconi decise invece di non fare la gara e - guarda un po’ - di assegnare gratis le frequenze. Nello stesso tempo (con l’isolata opposizione, dentro l’Agcom, del commissario dell’epoca Nicola D’Angelo) si decise anche un rapporto di conversione delle reti unico in Europa: una rete televisiva diventava una rete digitale, con una moltiplicazione per 4 dei canali nella mani di Rai e soprattutto di Mediaset.Oggi quei 2,4 miliardi non sono più "pensabili", almeno un terzo però si potrebbe comunque realizzare. «Ma siamo rimasti in pochi – annota Vita – a indignarci per questa vicenda relativa a un campo, quello tv, che era e rimane un far-west privo di regole serie, in cui le norme sembrano valere solo per i soggetti deboli». Tanto più che, volendo, una piccola quota dell’incasso potrebbe essere destinata anche a un aiuto alle emittenti locali, che stanno "transitando" con fatica al digitale.
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