domenica 17 gennaio 2010
La prigione non solo come luogo di espiazione della pena, ma anche come occasione perché la vita riprenda una direzione positiva Imparando un mestiere che a fine detenzione si potrà rivelare un fattore vincente. Ma le difficoltà per portare occasioni del genere nei penitenziari sono ancora molte.
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Dentro, dietro le sbarre, ci sono i lavoranti: lo “spesino”, “lo scopino”, lo “scrivano”, ma in realtà nessuno fa un vero lavoro. Il lavoro che nobilita, a usare una frase fatta, o che riabilita, come nel caso di persone detenute per espiare una pena: i carcerati. Alle persone detenute nella Casa circondariale di Rebibbia (Nuovo complesso) dal 2003 è stata data questa occasione: un lavoro vero, come quello svolto “fuori”, preceduto dalla formazione, regolarizzato con un contratto e retribuito con un minimo sindacale. L’idea di offrire un lavoro vero è di Men at Work e di e-Team, due intraprendenti cooperative (la seconda con sede dentro il carcere), con il necessario appoggio del Dap (il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) e della direzione della Casa circondariale. L’idea ha preso corpo con il servizio di cucina dentro le mura di Rebibbia. Con il Progetto ristorazione sono i detenuti a preparare i pasti per tutti gli internati che sono 1630, qualche centinaio più di quanti la struttura ne potrebbe ospitare.Li abbiamo visti: sono 24 particolari chef che, divisi in due turni, preparano ogni giorno la colazione, il pranzo e la cena. La cuffia bianca, i guanti, qualcuno con la mascherina, intenti ai fornelli o a fare il primo razionamento del cibo che poi, in singoli vassoi, arriverà in tutte le celle di tutte le sezioni. Un ristorante con 1.630 coperti non è uno scherzo. È necessario un preciso e puntuale razionamento. Alle undici e trenta arrivano nelle celle la frutta e il pane, poi i primi, quindi i secondi e i contorni. Vediamo prendere la via delle celle badilate di penne con funghi e salsiccia. Seguiranno un migliaio di cotolotte, senza considerare i pasti di chi, per ragioni mediche, segue diete particolari.Luciano Pantarotto è a capo della cooperativa Men at Work: «Questo lavoro – dice – non è una finzione. Perché il progetto rieducativo, che è poi quello previsto dalla Costituzione, possa funzionare è necessario assoggettare i lavoratori, benché particolari, a tutte le regole, come avverrebbe se fossero liberi cittadini». Il che significa: domanda di impiego e colloqui per essere assunti, poi corso di formazione professionale (perché non ci si può improvvisare cuochi) e conoscenza di tutte le norme Haccp (sull’igiene e la tracciabilità del cibo) che sono poi le stesse che deve osservare un qualsiasi ristorante che apre i battenti in una qualsiasi città italiana. Che non sia una lavoro per finzione lo dimostra infine la paga: in tre anni, il detenuto che lavora al progetto percepisce il cento per cento del minimo sindacale che tocca i mille euro. Gli verranno depositati su un conto personale. Può utilizzare solo una parte, e il resto, se vuole, trasferirlo alla famiglia.«Di più – aggiunge don Sandro Spriano, il cappellano di Rebibbia e anima di e-Team – questa iniziativa insieme ad altre, come ad esempio il call center per Telecom rappresentano una educazione al lavoro che è premessa per il futuro, quando per il detenuto le porte del carcere si apriranno definitivamente, scontata la pena. E che sia un metodo efficace di recupero sociale – aggiunge – lo dimostrano i dati sulla recidiva: per chi si è impegnato in una attività lavorativa è del 10 per cento. Negli altri casi è del 68 per cento». Il progetto intende adesso aprirsi al mercato e farsi dunque competitivo, perché un conto è cucinare per chi non può protestare se il cibo lascia a desiderare, e un conto è preparare, con un vero e proprio servizio di catering, pasti per l’esterno. Nascerà – è questo il progetto nuovo – «Centro Cottura» che potrà assumere almeno altri 20 chef detenuti.Tra i cuochi, Carmelo Sabatelli, pugliese, condannato a 16 anni, ma da alcuni mesi in regime di semi libertà. È un esempio concreto di reinserimento riuscito: Carmelo ha cominciato a cucinare pasti all’interno di Rebibbia e oggi lavora a tutti gli effetti con Men at Work. Il recupero passa dai fornelli e da altre cose: l’aiuto degli altri. «Un grazie agli educatori e un grazie ai volontari: – dice – devo a loro questi miei passi verso il reinserimento nella società». Carmelo non ha difficoltà a ricordare la brutta storia che lo ha portato in galera, ma aggiunge: «Si ricomincia se c’è qualcuno che crede in te. Qualcuno ha creduto in me, ma prima mi ha fatto comprendere la gravità del mio errore. Non puoi iniziare di nuovo –aggiunge – se sei ancora convinto che quanto hai commesso era giusto. Io non ho fatto una cosa giusta».Claudio Chigarelli, un altro cuoco di Rebibbia, uscirà fra 4 anni e sei mesi e conta i giorni con i pranzi e con le cene. Lo incontriamo nel parlatoio di Rebibbia. Ha appena finito di cucinare e parla con noi, mentre i carrelli dei maccheroni si avviano verso i reparti: «Ho letto l’avviso – ha ricordato – e ho fatto subito domanda. Ero sicuro che mio prendevano. Dopotutto, a casa cucinavo io». Prima di finire a Rebibbia faceva il muratore: «L’edilizia è fatta così: un giorno ti porti a casa un botto. Poi per mesi non fai un euro». Adesso prende 700 euro al mese, fissi, e preferisce cambiare discorso descrivendo il giorno in cui spera di aprire un localino o qualcosa del genere. «Noi qui facevamo anche la pizza», ci informa seguendo chissà quale pensiero. Forse pensa ad aprire una pizzeria, e l’assistente capo, che controlla austero al nostro incontro, pare voglia confermare: «Ed era pure bbona»
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