giovedì 12 maggio 2016
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Il verdetto arriva a freddo. Si sta parlando dell’importanza di un’azione educativa contro i clan quando il procuratore generale antimafia decide di spiegare perché ha rifiutato di partecipare a Porta a Porta. «Non sapevo che ci sarebbe andato Salvo Riina – afferma – né che il mio intervento, la sera successiva, avrebbe dovuto essere 'riparatore'. Non potevo certo fare da sponda a un’evidente strategia che puntava a mettere sullo stesso piano il capo di Cosa nostra e i magistrati. Involontariamente, ma il risultato che ne uscì fu quello... » Franco Roberti ha rievocato la puntata del 6 aprile ieri pomeriggio all’Università Bocconi di Milano, davanti ad un’aula gremita di studenti, in un ping pong sul tema della legalità con don Luigi Ciotti. Inevitabilmente, la trasmissione di Bruno Vespa è diventata la prova che esiste ancora un’accondiscenza nazionale verso le mafie. L’ha confermato il fondatore di Libera, il quale non ha risparmiato le critiche al programma della Rai: «Avevano cercato anche me, dicendomi solo che in studio ci sarebbe stata una sorpresa. E che sorpresa!» ha esclamato il sacerdote torinese sostenendo che «in quella trasmissione sono stati veicolati codici mafiosi». Non una parentesi, ma il punto di caduta dell’intero dibattito, gestito dal sociologo Nando Dalla Chiesa e inquadrato nel ciclo di incontri che Libera e sette atenei milanesi organizzano dal 2014 per sensibilizzare i giovani sul tema della legalità e della lotta alle mafie. Una 'guerra' ancora da vincere, come ha ammesso Roberti, ricordando che «molti colpi sono stati inferti ai clan, eppure il radicamento continua: solo il 12 aprile 2014 è stata videoregistrata l’affiliazione alla ’ndrangheta nel Lecchese». Il magistrato ha ricostruito l’arrivo della mafia nel Nord Italia «con la forza del denaro. Le organizzazioni mafiose si sono insediate grazie alla forza dei soldi e della corruzione. I mafiosi ormai agiscono più con la corruzione che con l’intimidazione » ha detto. Secondo il magistrato, per scalzare i boss dalle regioni ricche, dove la mafia investe i proventi dei suoi traffici, «non basta l’intervento giudiziario: deve esserci lo Stato in tutte le sue articolazioni », perché troppi soggetti, dai politici agli imprenditori, sono ancora disposti a mettersi «in affari» e anche nella società la tentazione di minimizzare il problema è diffusa. «In Piemonte nel 2008 la Commissone antimafia denunciò il radicamento delle mafie e la risposta delle istituzioni fu sconfortante: si offesero, volevano querelare...» ha ricordato Ciotti. A questo punto, Roberti ha dichiarato che l’atteggiamento della società e della politica verso l’illegalità è «un enorme problema politico». Un problema che può condurre alla mistificazione, ha aggiunto don Ciotti, esplicitando tutta la sua amarezza per le recenti accuse lanciate da un periodico nazionale contro la sua organizzazione (con relativa condanna per diffamazione). Un problema, hanno concordato tutti, che impone una riflessione a 360 gradi sulla legalità. Per Roberti, «dev’essere rapportata ai concetti di giustizia e di diritto, perché non è solo un fatto di legge. Lo prova il fatto che le leggi ad personam erano legali, ma negavano il principio stesso della legge che dev’essere nell’interesse di tutti i cittadini». Le mafie, ha avvertito il procuratore, «s’ingrassano con le disuguaglianze sociali» e per sconfiggerle – ha insistito – «bisogna attuare la Costituzione che sancisce la pari dignità di tutti i cittadini», mentre «la crisi economica è stata un’opportunità per i boss, perchè molti imprenditori in affanno si sono rivolti ai mafiosi per essere finanziati». © RIPRODUZIONE RISERVATA
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