domenica 28 febbraio 2021
L’ex presidente del Parco dei Nebrodi è il “padre” del protocollo che ha permesso di bloccare gli affari sporchi della criminalità organizzata, «milionaria e feroce»
Giuseppe Antoci

Giuseppe Antoci - Ansa

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Martedì nell’aula bunker di Messina si apre il Processo Nebrodi. Alla sbarra 104 imputati coinvolti nell’operazione del 15 gennaio 2020 contro la “mafia dei pascoli”, che portò all’arresto di 94 persone e al sequestro di 151 aziende agricole. Si tratta del più importante processo sulle truffe agricole milionarie all’Agea e alla Ue. Con l’aggravante mafiosa. Un enorme affare per le cosche siciliane che supera il miliardo e mezzo di euro. Cosche legate ai Santapaola-Ercolano, i “tortoriciani”, Batanasi e Bontempo-Scavo. Ma anche altri territori. Una ventina di terreni comunali in Abruzzo e addirittura un pezzo del Muos, la base di comunicazioni satellitari Usa a Niscemi. Gli imprenditori mafiosi dichiaravano falsamente di essere in possesso di questi terreni con affitto. Per poi incassare i fondi europei destinati a pascolo e seminativo. Trucchi per tentare di aggirare il “Protocollo Antoci”, dal nome dell’allora presidente del Parco regionale dei Nebrodi, che era intervenuto per bloccare un sistema che aveva permesso perfino a Gaetano Riina, fratello di Totò, di incassare i fondi europei, così come altri capimafia, perfino a chi era in carcere al 41bis. Bastava un’autocertificazione antimafia e nessuno controllava. Il 18 marzo 2015, su iniziativa di Giuseppe Antoci, viene firmato tra il Parco dei Nebrodi, la Prefettura di Messina, la Regione Sicilia e 24 comuni, un Protocollo che tra l’altro prevede l’obbligo di una vera certificazione antimafia. Nel 2016 viene adottato da tutti i prefetti della Sicilia. Il 27 settembre 2017 diventa norma nazionale inserita nel nuovo Codice antimafia. Nella notte tra il 17 e il 18 maggio 2016, Antoci, sotto scorta dal 2014 dopo varie minacce, subisce un grave attentato e si salva solo grazie all’auto blindata e all’intervento dei poliziotti di scorta.

«Martedì sarò lì perché li voglio guardare negli occhi. Non è una questione di coraggio. Anche io ho paura, ma dalla mia ho la forza dello Stato perché questa vicenda ha dimostrato che quando ci si unisce, quando si fa il proprio dovere fino in fondo, si vince». È la convinzione di Giuseppe Antoci, ex presidente del Parco regionale dei Nebrodi, “padre” del protocollo che ha permesso di bloccare gli affari della “mafia dei pascoli”. Che non gliela ha perdonato. «Ci sono varie intercettazioni nelle quali dimostrano l’odio nei miei confronti. È tutta colpa di “questo cornuto di Antoci, deve morire”, “non di malattia, ma da manera” cioè ammazzato. In un’altra intercettazione dicono “a questo cornuto gli dobbiamo sparare nel cervello”. Lo spiegano loro: “Questo protocollo non ci fa prendere più un euro”».

È la dimostrazione che «l’agricoltura per le mafie non è un’attività residuale. La mafia dei pascoli, quella arcaica da dove nasce cosa nostra, è diventata mafia dei terreni, milionaria e feroce, che soggioga i territori. E va dentro un sistema di finanziamenti con un rendimento del 2mila per cento che non dà neanche la droga. E soprattutto a rischio zero». Per questo «le cosche non litigano più perché tanto ci sono milioni di euro per tutti ed è inutile andare a fare rapine, chiedere il pizzo. L’indagine ha fatto emergere questo accordo». Non storie lontane. Pochi giorni fa la prefettura di Siracusa ha spiccato 5 interdittive antimafia per soggetti che utilizzavano il metodo mafioso nell’accaparramento dei terreni. Alcuni già presenti dell’operazione Nebrodi. Scoperti anche grazie al Protocollo che la Commissione europea nel 2019 ha definito «uno strumento eloquente di lotta alla mafia». Ma Antoci ha dovuto subire anche forti critiche, perfino da settori dell’antimafia, fino a mettere in dubbio l’attentato. «Questo “fuoco amico” non è stato fermato da me ma dallo Stato, dalla magistratura, dalle forze dell’ordine, dalla Commissione parlamentare antimafia. Ognuno ha fatto la sua parte. Non parlando, ma con le indagini, evitando quello che è accaduto altre volte. Io ci sono sempre e questo tentativo di delegittimazione è stato rimandato al mittente dalle istituzioni. Qualcuno ha provato a farci inciampare ma non ci è riuscito e ci ha solo rafforzato ».

Piuttosto, accusa, «io mi aspettavo che si andasse a ricercare il silenzio di quei colletti bianchi che per più di 15 anni, pur sapendo, hanno fatto finta di niente. La paura è di tutti noi e potrei rispettarla, la connivenza no. Questo silenzio ha armato le mani di chi voleva fermare me che avevo cominciato a parlare e soprattutto a realizzare degli atti». E qui Antoci ha parole amare. «Nella lotta alla mafia di gente che abbaia ce n’è una marea. Quanti sono, invece, quelli che mordono? Mordere vuol dire prendere i soldi dalle tasche dei mafiosi. E che lo Stato sta recuperando con le confische delle aziende e decine di sentenze della Corte dei Conti per la restituzione dei fondi europei».

E così arriva la notte dell’attentato. «Io stavo per essere ucciso come organo istituzionale della Regione, perché avevamo squarciato un sistema. Non ho fatto da solo, ho avuta una bella squadra, che ha creduto assieme a me che il protagonista non poteva più essere il silenzio». Ma, «quel giorno non è mai passato e purtroppo penso non passerà più. Mi passa per un po’ quando lo Stato continua a vincere, quando mi chiama un prefetto per dirmi “presidente li abbiamo colpiti”, quando un magistrato mi chiama e mi dice “abbiamo fatto tanti arresti, grazie per quello che ha fatto”. Di quella notte mi porto dietro l’orgoglio di non essere stato in silenzio, né di aver abbassato gli occhi e tanto meno la schiena davanti a coloro che per anni hanno tenuto un territorio col piede in faccia. Mentre per anni si commemoravano le vittime delle stragi, si consentiva che fondi pubblici andassero a persone che quelle stragi hanno organizzato. Ora quel piede lo abbiamo tolto, gli occhi non li abbassiamo, loro sì, perché davanti allo Stato li devono abbassare ».

Ma Antoci martedì sarà nell’aula bunker anche per «quei ragazzi che quella notte mi hanno consentito di tornare dalla mia famiglia, rischiando la loro vita. E soprattutto uno di loro, Tiziano Granata, che non c’è più e di cui ricordo gli occhi quella sera, impauriti come i miei. Martedì io sarò lì anche per lui. Lo porterò dentro al cuore».

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