domenica 27 marzo 2016
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Italia bocciata in Europa per aver impedito a un padre di vedere regolarmente i propri figli. Non si tratta di un giudizio generico. La procedura decisa dalla Corte europea per i diritti umani di Strasburgo riguarda il caso di due genitori emiliani e del loro figlio di 11 anni. I giudici europei, cogliendo nella vicenda un serie di gravi irregolarità sia dal punto di vista giuridico sia da quello della modalità applicative, invitano i colleghi italiani e i servizi sociali a rivedere i criteri con cui viene applicato l’affido, tutto sbilanciato a favore della madre. La sentenza è firmata e sottoscritta il 17 novembre 2015. Cosa fa il Tribunale dei minorenni in questi mesi? Nulla. Cosa fanno le autorità locali da cui dipendono i servizi sociali? Assolutamente nulla. Ma come si possono determinare situazioni tanto paradossali? Per tentare di capirlo, bisogna fare un passo indietro. Alla base, come purtroppo accade spesso, una separazione e il successivo conflitto per ottenere l’affido del figlio. Quando la famiglia si disgrega il piccolo ha soltanto un anno. Marco e Irene (nomi di fantasia) concordano per l’affido esclusivo alla madre. Ma il padre potrà vedere il figlio due volte la settimana e stare con lui nei fine settimana. Ma succede – e anche questo purtroppo è un classico – che quando i rapporti tra due 'ex' sono disgregati fino alla sfiducia reciproca, gli orari non coincidano mai, che il piccolo sia spesso malato, che la madre si trovi fuori città, che «oggi guarda è meglio di no, proprio per il bene del piccolo». Così Marco non riesce quasi mai a stare con il bambino. E fa ricorso. Bocciato. Lo ripresenta, ancora bocciato. Ma nel frattempo gli anni scorrono via veloci. E non c’è nulla di più drammatico per un padre della consapevolezza di non poter accompagnare nella crescita un figlio amato e da cui è riamato. Non si tratta di un’illusione, ma di una certezza che anche i giudici di Strasburgo mettono nero su bianco: il bambino esprime più volte il desiderio di stare con il padre. Ma la madre ricopre un ruolo importante all’interno dell’Asl e, guarda caso, le perizie chieste e richieste dall’uomo, finiscono sempre per risultare a suo sfavore. Lui non si perde d’animo. Continua a puntare l’indice contro l’ex compagna anche perché, nei pochi momenti in cui riesce a stare con suo figlio, coglie evidenze tali nei comportamento del piccolo da renderlo preoccupato e inquieto. Gli incontri tra padre e figlio avvengono con il contagocce, poi si diradano, infine svaniscono nei labirinti di interventi che i servizi sociali rimandano sine die. Non bastano decine di querele, di appelli alle autorità locali, di ricorsi in tribunale per cambiare la situazione. Così, nel 2013, Marco, estenuato e deluso, si rivolge al Tribunale europeo per i diritti dell’uomo. È consapevole che si tratta dell’ultima spiaggia. Ma può essere anche la svolta. E la Corte di Strasburgo gli dà ragione. E muove al Tribunale italiano e alle autorità una serie di appunti inesorabili. Rileva «che l’esistenza di un legame tra la madre del bambino, i servizi sociali e lo psichiatra incaricata di redigere la perizia sulla famiglia era evidente». Sottolinea che «nell’interesse del minore le giurisdizioni interne... il Tribunale e la Corte di appello avrebbero potuto valutare meglio se fosse necessario ridurre o ampliare il diritto di visita del ricorrente (il padre)». E visto che questo non è avvenuto, i giudici europei ritengono che le autorità italiane «sono tenute a riesaminare, nel più breve termine, il diritto di visita del ricorrente, tenendo conto della situazione attuale del minore e del suo interesse superiore». Conclusione, impedendo a un padre di vedere regolarmente il proprio figlio, l’Italia ha «violato la convenzione sui diritti umani» e deve porvi rimedio. Giusto? Sarà, ma chi chi può convincere un Tribunale dei minori ad ascoltare i 'consigli' di Strasburgo? I padri separati possono attendere. L.Mo.
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