mercoledì 29 dicembre 2010
Il partito si spacca sull'accordo per Mirafiori. E Vendola incalza: «radicalità contro Marchionne, Bersani decida con chi stare». Tra gli ex-ds molti lo seguono. Ma per l’ala moderata «qui si vede chi è riformista e chi conservatore».
- Verità e bugie sull'intesa
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Non fa in tempo a digeri­re il panettone Pier Lui­gi Bersani. La tegola Mi­rafiori sta già producendo i suoi effetti nel partito diviso, ma è Ni­chi Vendola – ancora una volta – a rovinare definitivamente la fe­sta. Se il leader del Pd aveva pre­so tempo per decidere la dire­zione di marcia del suo partito, in attesa del vertice del 13 gennaio, ebbene, il leader di Sel schiera le pedine sulla scacchiera e apre la sfida. Per il governatore pugliese la battaglia con Marchionne va condotta con «radicalità», per­ché si tratta di una battaglia «per la democrazia». E il segretario de­mocratico, che avrebbe deman­dato in Parlamento il dibattito, si trova incalzato a dover rispon­dere. Per lui lo fanno subito i ver­tici di largo del Nazareno, e l’im­magine che ne esce è quella di un partito spaccato, che si gioca il futuro sulle alleanze possibili tra i «conservatori» della sinistra radicale e i «riformisti» favorevoli all’accordo, come si autodefini­scono i moderati piddì. Vendola esamina l’accordo di Mirafiori e la posizione isolata della Fiom. «Non è solo una sfi­da arrogante contro il mondo del lavoro – dice – .È l’idea di un re­stringimento secco degli spazi di democrazia in questo Paese». Ma su Mirafiori il leader di Sel cerca di stanare Bersani, che solo qual­che giorno fa gli aveva chiesto «generosità» per una alleanza co­stituente: «Il messaggio è: 'pri­ma delle alleanze confrontia­moci su un programma'? Ab­biamo una occasione straordi­naria che è quella del caso Mira­fiori ». Insomma, spiega, «un punto dirimente per costruire u­na visione e una coalizione con coloro che si sono opposti, per esempio, alla riforma Gelmini». Su questo, neanche a dirlo, An­tonio Di Pietro è pienamente d’accordo.E qui iniziano le nuove grane bersaniane. Il tempo stringe – sebbene un attendista Chiam­parino pensi ai 18 mesi necessa­ri perché l’accordo Fiat entri in vigore – , e il segretario dovrà da­re la sua risposta. Intanto sono in molti a schierarsi, in un parti­to diviso, sul quale incombe il Lingotto due di Veltroni, la mini­scissione di Parisi e la decisione di Fioroni. La spaccatura è tra­sversale, perché tra gli ex ds filo-Cgil, molti si sfilano per seguire la linea Cisl-Uil. Così Piero Fas­sino confessa: «Se fossi lavorato­re Fiat voterei sì al referendum». Ma resta la ricerca di un «clima più disteso», come quello del 2008 che, ricorda Cesare Damia­no, favorì il documento unitario. E sono in molti a ragionare sul­l’inasprimento del confronto, che porta alle spaccature. L’ac­cordo di Mirafiori è un «evento positivo», secondo il giusvalori­sta Pietro Ichino. La Fiom, però, deve «avere voce, non potere di veto», evitando che «si trasformi in un super Cobas fuori sistema». Piuttosto, in un regime di «plu­ralismo sindacale», diventi nor­male «che un sindacato firmi un accordo e un altro si rifiuti». Eppure sulla mancata firma, or­mai, si combatte l’ultima batta­glia nel centrosinistra. Se l’ex diesse Vincenzo Vita considera «riformista» la bocciatura del­l’accordo e così anche il respon­sabile economia pd Fassina, per gli ex popolari, al contrario, il riformismo è proprio nella rot­tura degli schemi passati. La pensa così Beppe Fioroni, con­vinto che nella crisi ci vuole co­raggio ». E la pensa così la lettia­na Alessia Mosca, come il veltro­niano Tonini, per il quale il «Pd è un partito di cambiamento». Parla invece come ex leader Cisl Franco Marini: «Da sindacalista io l’accordo per Mirafiori lo avrei sottoscritto».
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