mercoledì 18 agosto 2010
Con la frequentazione di un nipote per i compiti, la scoperta di uno "zio" di cultura e fede fuori dal comune. Filippo Rizzi, giornalista di Avvenire, racconta la sua amicizia con Cossiga: «Lui importante uomo pubblico, io bambino ascoltavo i suoi racconti. E lui ascoltava me».
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Questo non è un ricordo. È la storia di un’amicizia, la mia amicizia con Francesco Cossiga. Erano i primi anni Ottanta e avevo più o meno 8 anni quando ebbi il mio primo incontro con l’allora presidente del Senato. Un’amicizia nata tra i banchi di scuola grazie a Luigi Cremoni, mio compagno di classe del San Giuseppe De Merode di Roma, e continuata, senza interruzioni.Capitava di essere ospite per i compiti del mio amico Luigi nella casa della nonna, sorella del senatore Cossiga, la signora Antonietta, e di trovarmi a tavola con lui: per me, bambino, era uno spettacolo sentirlo parlare di questioni internazionali, governi nati durante il suo settennato al Quirinale, incomprensioni con la Dc... Ogni suo sussulto, lampo di genio, interruzione, tra un primo e un secondo piatto era teso a catturare l’attenzione. Ogni gesto era accompagnato da autoironia e dalla rilassata disponibilità a condividere particolari sconosciuti.In quegli anni ormai lontani è sorta questa amicizia asimmetrica, che mi ha permesso di conoscere un Cossiga lontano dall’immagine pubblica del picconatore, un uomo capace di ascolto, attento alle mie curiosità, interessato a quello che volevo fare da “grande”. Grazie anche a suo nipote Luigi, la comune passione per la storia, la teologia e il cattolicesimo sono diventati presto il vero terreno di incontro con il Presidente.Mi capitava di accompagnarlo, nei giorni feriali come in quelli festivi, a Messa nelle chiese della Capitale. Le sue mete preferite erano San Carlo al Corso, Santa Maria in Trastevere e la parrocchia di San Gioacchino, non distante dalla sua bella casa, in zona Prati. Era facile anche vederlo al Gesù per una fugace visita al Santissimo prima di immergersi nei Palazzi del potere insieme alla sua paziente scorta.La visita ai luoghi di culto di Roma era per lui l’occasione di incontrare tanti uomini di Chiesa: da semplici sacerdoti a ecclesiastici importanti, come il compianto vescovo ausiliare di Roma, il rosminiano Clemente Riva o l’attuale vescovo di Terni, Vincenzo Paglia. Incontri che rappresentavano l’occasione per parlare delle cose che più facevano trasparire la sua vena religiosa: il peccato, la grazia, i sacramenti, la Chiesa.Ecco, mi incoraggiava a coltivare la passione per la storia della Chiesa cattolica, in particolare per quella della Compagnia di Gesù. Una volta mi confidò: «Dopo la maturità classica ho accarezzato l’idea di farmi gesuita. Il mio direttore spirituale, un padre della Compagnia, mi suggerì di prendermi un anno di tempo prima di decidere un passo così importante. Ma in quell’anno, nel quale mi ero messo più a contatto con la vita concreta, intuii che non era la mia strada».Nel corso della sua lunga vita, ha mantenuto una particolare amicizia con due gesuiti, suoi conterranei: lo scrittore della Civiltà Cattolica Giovanni Marchesi e l’arcivescovo Giuseppe Pittau. Frequenti erano le sue domande sulle questioni teologiche, dal giansenismo a Pascal, ai “reclusi” di Port Royal, alle grandi dispute teologiche seicentesche sul tema della grazia tra gesuiti e domenicani ma anche sulle correnti del post-Concilio e sull’azione di Pio XII durante la seconda guerra mondiale.Era divertente andarlo a trovare nella sua abitazione romana: fare anticamera con big della politica, manager pubblici e privati capitani d’azienda, vederlo regista di futuri scenari politici e poi, di botto, passare a riflettere sugli ultimi pronunciamenti della Congregazione per la dottrina della Fede riguardo l’impegno dei cattolici in politica.Stella polare della sua ricerca teologica è stato Joseph Ratzinger, oggi Benedetto XVI, conosciuto negli anni Ottanta da prefetto della stessa Congregazione, assieme a Walter Kasper. Il suo album di ricordi era fitto di aneddoti dalla giovanile militanza dorotea nella Dc, all’amicizia con Moro all’ammirazione per il cardinale austriaco, fautore dell’«Ostpolitik», Franz König. Amava regalarmi volumi che considerava “libri da comodino”: dalla Filotea di san Francesco di Sales alle preghiere del cardinale Newman, dagli scritti spirituali di Teresina di Lisieux a quelli di von Balthasar e dell’amatissimo Tommaso Moro.Pur nella distanza oggettiva che ormai ci separava – lui quasi sempre a Roma, io a Milano – la nostra amicizia non è mai venuta meno. Frequenti erano le sue telefonate per sapere cosa ne pensassi del tal teologo o del talaltro studioso, e quali articoli avessi in cantiere. Amava ancora raccontarmi le sue dispute, come le ultime discussioni teologiche in un perfetto inglese con l’ex maestro generale dei domenicani Timothy Radcliffe. Impressionava nel suo argomentare su qualsiasi questione la capacità di fare sintesi – come direbbe Romano Guardini – e di attingere sempre a una vera weltanschauung cattolica.Qualche giorno dopo la mia assunzione ad Avvenire mi chiamò per congratularsi: «Adesso, spero, avrai il tempo di intervistarmi». Laconica, e intimidita, la mia risposta: «Temo, presidente, di non essere in grado...». E oggi un po’ me ne pento. Ma sono felice di aver goduto della sua amicizia, quella di un potente della Terra capace di dialogare con tutti, dall’uomo di strada al grande accademico, e di un maestro di vita in grado di farti sentire sempre un interlocutore importante.Mi piace pensare che ad accoglierlo in cielo ci sia il futuro beato, il cardinale John Henry Newman, al quale potrà ripetere le sue stesse parole, quelle con cui amava congedarsi dai nostri lunghi colloqui: Ex umbris et imaginibus in veritatem. Dalle ombre e dalle immagini sono tornato alla verità.
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