mercoledì 23 febbraio 2022
Giuseppe a 18 anni ha perso la mamma, uccisa dall’ex marito. «Appena 300 euro al mese, tempi lunghi per la burocrazia». Vera, nonna e madre di Asia dal 2015: «Siamo e restiamo invisibili»
Il grido degli orfani di femminicidio: «Lo Stato adesso ci ascolti»
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«Orfani di domani». Che in questo caso non è una metafora. Perché quando una madre viene ammazzata da un padre, un figlio è orfano subito. Dal giorno dopo. E di tutto. Via da casa, quasi sempre teatro del massacro. Via da scuola, perché servono tempo, accertamenti, colloqui e perché la nuova sistemazione (che sia la casa dei nonni o una comunità protetta) non è mai nello stesso posto dove si viveva prima. Via dalle cose di prima: gli amici, lo sport, il catechismo. «Così mi sono ritrovato io a 18 anni» racconta Giuseppe Delmonte, il viso sorridente incorniciato dalla mascherina e il camice da operatore sanitario. A 43 anni la ferita è ancora aperta, «ma il mio lavoro mi ha salvato. Ho deciso di lavorare in un ospedale perché a differenza di mio padre volevo dare la vita, non toglierla».

Ci ha messo vent’anni a parlare di quel giorno d’estate del 1997. Orrore a colpi d’ascia nel Varesotto: mamma Olga è morta così, martoriata dall’ex marito mentre andava in Posta a ritirare un vaglia con cui l’uomo le corrispondeva i primi alimenti ottenuti dopo una lunga separazione. Aveva denunciato, e denunciato: «E quello Stato che non aveva fatto nulla per salvarla non c’è stato mai nemmeno dopo. Siamo rimasti soli, io e i miei fratelli». Giuseppe ha taciuto, s’è tenuto dentro tutto quel dolore fino a qualche anno fa, quando di tasca sua s’è pagato «lo psicologo che mio padre invece ha avuto dal primo giorno di carcere. Ne sono uscito, sono qui. Ma oggi non voglio più stare zitto». Perché lo Stato ancora non arriva, o arriva troppo tardi. Con una legge – quella approvata a febbraio del 2018 – che stanzia fondi per appena 300 euro al mese (quando le sole sedute necessarie di psicoterapia ne richiedono mediamente quasi il tirplo) e che li fa arrivare coi tempi infiniti della burocrazia (dai 12 ai 18 mesi dalla richiesta secondo le associazioni che seguono i familiari), comunque solo fino ai 18 anni e solo per chi orfano lo è diventato dopo il 2010. E poi senza una rete, senza coordinamento tra i servizi, senza un’anagrafe e persino dei dati statistici affidabili che documentino quanti sono, effettivamente, gli orfani di femminicidio da sostenere: 2mila (le stime artigianali fatte dal mondo del terzo settore), 250 in più ogni anno.

Giuseppe alza la voce: «Le cose devono cambiare per i bambini e i ragazzi che oggi vivono quello che ho vissuto io allora». In tanti sono iscritti al gruppo Facebook “Noi orfani speciali”, dove scorrono foto e racconti strazianti. Ci sono anche quelli di tanti nonni, come Vera Squatrito. Un’altra vittima collaterale. Nel 2015 ha perso la figlia Giordana, 20 anni appena, uccisa con 48 coltellate dall’ex fidanzato, nel Catanese: «Mi ha lasciato la piccola Asia, una bimba che ho visto morire proprio come la sua mamma – racconta –. Perché una bambina muore, quando subisce un trauma del genere. E io con queste due morti ho dovuto imparare a vivere». Anche Vera ha pagato di tasca sua psicologi ed esperti, anche Vera si è sentita sola e abbandonata da tutti: «La mia resilienza me la sono costruita da sola. Mi chiedo perché non veniamo ascoltati. Mi chiedo perché, se è vero che i soldi per gli orfani speciali ci sono come ci ripetono i politici, quei soldi non arrivano alle famiglie che ne hanno bisogno. La verità è che molte di queste non sanno nemmeno di aver diritto a dei fondi, perché nessuno glielo dice: qui in Sicilia, dove i femminicidi sono aumentati a dismisura negli ultimi anni, quasi sempre è così».

Vera allora non si stanca di andare nelle piazze, nelle scuole, nei centri d’ascolto per raccontare la sua esperienza e spiegare come si può sopravvivere a un dolore così grande. Ha fondato anche un’associazione, che si chiama “Io sono Giordana”, da cui è nata una struttura di accoglienza e di reinserimento sociale per le donne vittime di violenza – “La casa di Giordy” – e appena qualche mese fa uno sportello di ascolto attivo tutti i giorni. Le donne vengono salvate nel nome di sua figlia «e io trovo una ragione per andare avanti, oltre ad Asia». Che va anche difesa da un padre-assassino «che prima o poi uscirà e che vorrebbe persino vederla per sostanziare il suo percorso di rieducazione in carcere» protesta Vera. I nonni diventati madri, e padri, devono affrontare anche questo: «E non è giusto, non può essere. Devono poter decidere i bimbi quando e se mai incontrare i padri. Ma la loro voce non viene ascoltata».

Il progetto “Respiro”

Se non c’è una rete, per gli orfani speciali, bisogna costruirla. Ed è proprio questo l’obiettivo del progetto“Respiro”, pronto ad essere messo in campo dalla Fondazione Coi i bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, con 3 milioni e 300mila euro in quattro anni (con la benedizione del premier Draghi, che nei giorni scorsi ha scritto una lettera di incoraggiamento al presidente Marco Rossi Doria). Obiettivo: ripartire daccapo, unendo le competenze e trasformando in sistema le esperienze positive già maturate sui territori, per mettere finalmente a terra interventi operativi capaci di dare risposte alle esigenze delle famiglie travolte dallo tsunami dei femminicidi.

Il progetto sarà realizzato in quattro macroaree (nord-est, nord-overst, centro, sud e isole) dalla cooperativa sociale Irene ’95 in partenariato con l’Azienda Ospedaliera Giovanni XXIII di Bari, il Centro Famiglie di Catania, Cestrim, Cismai, Cipm Sardegna, Consorzio Co.re, Progetto Sirio, Save The Children, Terres des Hommes, Thamaia, Koinos, Sinapsi. Con numeri ambiziosi: presa in carico di 50 “orfani storici” e 50 nuovi con tutor dedicati, più di 100 operatori qualificati coinvolti, 50 protocolli d’intesa con enti pubblici e del terzo settore, 100 percorsi psicoterapeutici per i ragazzi e altrettanti per le famiglie, almeno 6 strutture di “Pronto soccorso in emergenza” che si possano rendere operative fin dalle prime ore dopo il femminicidio per orientare le decisioni e supportare le vittime. E non è tutto: nel corso del progetto verrà inoltre portata avanti la formazione per gli operatori dei servizi socio-sanitari, dei Centri antiviolenza e per gli altri professionisti (forze dell’ordine, personale dei tribunali ordinari e di quelli dei minori, legali, insegnanti, volontari delle associazioni). Parallelamente sarà condotta una attività di prevenzione e sensibilizzazione attraverso laboratori educativi diffusi nelle scuole: per promuovere competenze sulla capacità di chiedere aiuto in situazioni di abusi e maltrattamenti e per mettere in discussione i modelli di relazione basati su stereotipi di genere e i meccanismi socio-culturali di minimizzazione e razionalizzazione della violenza. Punto di arrivo l’istituzione di un Registro nazionale degli orfani, di un Osservatorio dedicato e di linee guida nazionali di intervento, con la messa a fuoco di un protocollo condiviso (scientifico ed educativo) di intervento.

Il progetto è stato accolto con entusiasmo anche dal pezzo di Parlamento impegnato in prima linea sui temi dell’infanzia, dal vicepresidente della commissione per l’Infanzia e l’adolescenza Paolo Siani alla presidente della commissione d’inchiesta sui femminicidi Valeria Valente: «Dobbiamo capire dove si inceppa il meccanismo che elargisce i fondi agli orfani di femminicidio – ha detto la senatrice rispondendo agli appelli degli orfani e delle loro famiglie –. Oggi i soldi ci sono, la destinazione c’è, le norme e i regolamenti attuativi sono stati fatti ma ancora non riusciamo a farci carico delle situazioni. Dobbiamo capire qual è l’anello che non funziona».

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