martedì 18 aprile 2017
«In carcere, come nelle periferie, incontro ragazzi che non sanno chi sono. Nessuno gli ha mai detto: bravo tu vali»
Don Rigoldi: «Il futuro è stasera. E mancano le relazioni»
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Aguzzini, assassini. Oppure fantasmi: vittime dei più forti, ma anche della noia, delle aspettative, del web. Caino e Abele, Abele e Caino: le categorie si confondono, la psicologia balbetta, l’educazione si eclissa. C’è un mondo di giovani sani: impegnati, altruisti, coraggiosi. E poi c’è quello che terribili fatti di cronaca hanno tratteggiato negli ultimi mesi: il ragazzo che si butta dalla finestra a Lavagna per non deludere la madre, gli amici che uccidono i genitori di uno dei due a Pontelangorino per soldi, i bulli di Vigevano che violentano un coetaneo disabile, la banda di Alatri che massacra Emanuele. Tragedie incomprensibili, e che per questo fanno paura. Agli adulti, che arrivano tardi. Che non capiscono, non sanno aiutare. Perché? Chi sono questi giovani? Cosa gli succede che dipende da noi (se dipende da noi) e come intervenire per cambiare (noi e loro)? Il “salvagente” delle dipendenze – droga, alcol, tecnologie – fa acqua: non giustifica, tanto meno risponde. E così anche i luoghi tradizionali cui gli adolescenti “malati” vengono affidati – le comunità, i centri di recupero, gli istituti di riabilitazione – non bastano più. Avvenire inizia un viaggio su questa frontiera, che sta cambiando pelle. Ad abitarla in molti casi, e da decenni, ci sono figure carismatiche come don Gino Rigoldi e don Antonio Mazzi, che incontriamo oggi. Tra gli ultimi, nelle periferie geografiche, economiche ed esistenziali – il primo soprattutto a Milano e in Romania, il secondo su tutto il territorio nazionale e negli ultimi anni anche in diversi Paesi del mondo – questi due sacerdoti hanno lottato e lottano per la resurrezione dei “cattivi ragazzi”. Li incontrano, li ascoltano, li hanno visti cambiare. E adesso lanciano alla politica, alla società civile e persino alla Chiesa una nuova sfida. Necessaria per non perderli.

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La porta dell’Hub si apre su un giardino ordinato. Le strutture moderne tutt’intorno, i vasconi con le piante dell’orto, lo scivolo colorato. La nuova casa dei giovani, delle famiglie del quartiere, di chi ha bisogno e non trova posto, nel mondo, è a duecento metri dai cancelli del carcere minorile Beccaria di Milano. Che da sempre, invece, è la casa di don Gino Rigoldi. Lui aspetta. Che le convenzioni col Comune si attivino, che la gente cominci ad arrivare: all’Hub, dove appena dieci giorni fa ha fatto il suo ingresso il presidente Mattarella, c’è posto per 10 bambini soli, per 20 mamme con figli, per 50 persone in housing temporaneo (senzatetto, migranti, ex carcerati, disoccupati), per una ciclofficina, per corsi professionali, per artigiani disposti a insegnare il loro mestiere ai giovani, persino per una pasticceria.

Tutto questo perché, don Gino?
Per stare con gli altri. Sento fare tanti discorsi su quella che dovrebbe essere la nostra missione educativa oggi. Ecco, io penso che l’educazione ha un sinonimo che si chiama relazione. Stare con gli altri. È come si sta con gli altri che ci qualifica e li qualifica.

Questa relazione manca ai giovani che incontri in istituto?
Tremendamente.

Prova a farcene un identikit. Qualche settimana fa, per esempio, hai incontrato i quattro “bulli” di Vigevano: che giovani sono?

Al Beccaria passano circa 300 ragazzi all’anno. Il 40% circa sono stranieri. Due sono le caratteristiche che solitamente li contraddistinguono: hanno una storia di drammatica povertà personale (economica, affettiva, scolastica). E non hanno alcuna stima di se stessi, nessuna idea di futuro. Il futuro, per intenderci, è stasera. Lo stesso vale per i quattro ragazzi di cui mi chiedi. Non sanno da che parte sono girati, non hanno cognizione di quello che sono prima ancora che di quello che hanno fatto, e che ora devono o possono fare.

Ti fa paura, questo vuoto?
I giovani non mi hanno mai fatto paura. Anche quando sono grandi e grossi, e al primo incontro gli sento dire solo parolacce, insulti. Quarantacinque fa, quando iniziavo a fare il cappellano qui al Beccaria, la maggior parte degli ospiti dell’istituto venivano dal Sud. Loro il futuro lo cercavano, e lo cercavano nel modo sbagliato: separandosi dalle famiglie, commettendo reati. Oggi è tutto cambiato: questi ragazzi dalla famiglia non si sono separati eppure hanno drammaticamente bisogno di paternità, d’essere accompagnati, di vedersi riconoscere un valore. Se ho paura, di questi giovani, per loro non posso fare nulla. Quello che faccio invece è stare con loro. Parlare con loro. Il linguaggio, eccolo uno dei mali del nostro tempo. Manca il linguaggio per parlare con questi ragazzi, prima ancora che per capirli.

Che intendi?
Che sogno diamo ai giovani? Penso al mondo degli adulti, dalla politica alle istituzioni, dalla scuola alla famiglia fino alla Chiesa. Che cosa diciamo loro? Abbiamo qualcosa da dire? E se lo abbiamo, come lo diciamo? Prendi Gesù, per esempio. A messa la domenica, qui in carcere, io Gesù devo raccontarlo a questi ragazzi. Come glielo dico? Lo sforzo che faccio è stare nella relazione che ti dicevo, che poi è il comandamento dell’amore.

Don, fai un esempio.

Ogni anno, con Comunità nuova, portiamo un centinaio di ragazzi in Romania per il volontariato. Bella gioventù, si dirà. Ma sai come tornano più belli quando capiscono che hanno un valore, che la cosa che fanno ha importanza? Così quando faccio lavorare uno che è appena uscito dall’istituto, o che arriva da noi senza saper fare niente: il primo pacchetto di sigarette che si compra coi suoi soldi, il primo biglietto del tram, la prima volta che gli dico «hai visto? Sei stato bravo!». Quel momento è tutto. Spesso lo dico ai miei: io non faccio l’educatore, faccio il rassicuratore. Quando a un ragazzo dai qualcosa da fare e gli dici «hai fatto bene», quello sente di valere qualcosa. Di essere qualcosa. E sboccia.

Comunità nuova. Case, centri di aggregazione, sport. E la mano tesa ad emarginate e migranti

La “creatura” nata nel 1973 dalla passione di don Gino Rigoldi – e oggi alimentata dalla collaborazione di centinaia di volontari – è Comunità Nuova, un’associazione non profit che opera nel campo del disagio e della promozione delle risorse dei più giovani. Quattro gli ambiti di intervento: quello propriamente giovanile, con centri d’aggregazione e sociali (è il caso del Barrio’s nel quartiere periferico della Barona a Milano) ma anche con l’educazione di strada, le borse di studio, il doposcuola e il contrasto alla dispersione scolastica, gli interventi educativi nelle scuole e nelle società sportive (è il caso dei progetti Tapin Rozzano o Io tifo positivo, quest’ultimo esteso in tutta la Lombardia e anche al Sud). Dedicati a infanzia e famiglie, invece, le numerose iniziative che prevedono la presa in carico di minori in difficoltà o soli, le comunità per bambini e adolescenti (anche in Romania), la mediazione familiare. Gli altri due punti di snodo dell’attività di Comunità Nuova sono le dipendenze (con l’accoglienza, la cura e il sostegno delle persone tossicodipendenti) e l’inclusione sociale di emarginati e migranti (col segretariato sociale, l’housing temporaneo, la consulenza e l’orientamento legale, l’accoglienza diurna). Ultimo tassello dell’impegno di don Gino è l’Hub, un centro di aggregazione e ospitalità di proprietà del Comune di Milano e affidato in gestione a Comunità Nuova.


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