giovedì 26 luglio 2018
Gli operai Fca dello storico stabilimento campano: ora continuità con i piani di Sergio. Il timore che i nuovi manager "dimentichino" i sacrifici (e i costi sociali) dell'ultimo decennio
Lo stabilimento Fca di Pomigliano d'Arco

Lo stabilimento Fca di Pomigliano d'Arco

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Un triste scherzo del destino ha fatto coincidere la morte di Marchionne con la chiusura dei cancelli del Giambattista Vico di Pomigliano, da ieri e sino al 29 agosto. E nei dieci minuti di silenzio che ogni turno ha riservato all’ex amministratore delegato, nei pensieri più profondi delle tute grigio-blu di Fca è apparso solo un numero: 2022. Duemilaventidue, l’anno del non ritorno. Nella migliore delle ipotesi, oltre non si andrà nella produzione della Panda, l’unica vettura che esce fuori dallo stabilimento. E dopo? Il "dopo" è un muro che fa paura a chi lavora, ha moglie e figli e sa quanto è viscido il terreno prima del baratro.

LE CICATRICI DEL 2010

Il dopo-Marchionne è la domanda sul futuro, a Pomigliano d’Arco. Lo si può chiamare pragmatismo, persino cinismo, se si vuole. Il futuro, il futuro e basta. Il passato vale ciò che vale. Anche al presente, amaro con altri 15 mesi di cassa integrazione sino a settembre 2019, si può derogare. E in fondo, su passato e presente, si continua a navigare negli stereotipi. «Sergio ci ha salvati, eravamo falliti, senza di lui non esisteremmo». «Sì, ma a che prezzo?». Le stesse identiche posizioni del 2010, quando uno dei referendum sindacali più sofferti della storia del Paese cristallizzò ogni opinione in due freddi numeri: 63 e 37. Il 63% dei lavoratori favorevoli al piano-Marchionne, alla riduzione delle pause da 15 a 12 minuti, alla mensa spostata a fine turno per non perdere produttività, ai nuovi modelli organizzativi importati dai giapponesi. Il 37% contrario e sulle barricate. Fim-Cisl e Uilm da una parte, Fiom-Cgil dall’altra. Una ferita sanguinosa che si è ripercossa a lungo sulla vita degli stessi lavoratori, con storie mai del tutto chiarite: quella del presunto "reparto-confino" della logistica nella vicina Nola, dove sarebbero messi i "cattivi" (una storia davvero oscura con uomini e donne che si sono tolti la vita); il sospetto mai del tutto sopito nel corpaccione dei metalmeccanici che anche la cassa integrazione venga utilizzata, nonostante i controlli degli enti pubblici, per somministrare “punizioni”. Ma anche gesti macabri contro il «padrone»: i manifesti e le scritte con auguri di morte, le impiccagioni dei manichini col suo volto, il finto funerale che è costato il licenziamento a cinque operai (uno di questi, Mimmo Mignano, di recente si è cosparso di benzina dinanzi all’abitazione dei genitori del vicepremier Luigi Di Maio, che poi è andato a trovarlo in ospedale).

IL COLLANTE DELLA PAURA

«Leggende, esagerazioni, strumentalizzazioni», dicono gli integrati. «No, fatti», rispondono gli apocalittici. Qui la polarizzazione è la regola, non l’eccezione. Da ieri, però, un po’ meno. Perché negli stessi istanti in cui veniva comunicata la morte di Marchionne, i cancelli sono stati chiusi per il grosso dei reparti. Riapriranno solo il 29 agosto. Un mix di ferie e ammortizzatori sociali che per molti ha il retrogusto di un presagio triste. Perché sia quelli del «Sergio santo subito» sia quelli del «ci ha fatti schiavi» ora convengono in un punto. «Marchionne lo conoscevamo, lo avevamo inquadrato. E comunque su Pomigliano ci ha messo i soldi, 800 milioni, mica li ha messi per nulla…», spiegano le due campane con un rintocco, per una volta, simile. E Manley, invece? Chi è, Manley? Che farà, da finanziere business is business, se non si raggiunge una certa redditività?

Che ci sia ora un punto di preoccupazione unanime e grave lo si capisce da due indizi. Il primo, Fiom è tornata ormai da mesi a firmare accordi insieme alle altre sigle, lasciando il ruolo di opposizione nuda e cruda all’ultraminoranza dei Cobas («Sergio, non ti piangeremo», è il volantino che ieri hanno diffuso). Anche gli accordi sui "deportati" o "prestati" a Cassino, anche quello sui sabato non considerati straordinario. Il secondo indizio è che il più marchioniano dei sindacalisti Fca, il segretario regionale Fim-Cisl Giuseppe Terracciano, alza il livello di guardia: «Serve la seconda macchina, ma soprattutto servono alleanze mondiali per gli enormi investimenti sull’ibrido e l’elettrico, e Fca non può farli da soli. Il gruppo è troppo grande per crollare e troppo piccolo per competere sui motori del futuro. Il piano industriale di giugno guarda indietro, adesso occorre guardare avanti». I rancori sindacali di un tempo non sono superati, ma c’è un nuovo interesse comune che si affaccia: qualsiasi cosa si pensi su «Sergio», ora l’importante è che ci sia «continuità». Una «continuità» che è il bene supremo per chi aderito al marchionismo e contemporaneamente il «male minore» per chi ha contrastato l’ex manager. «Continuità», ciò che chiede l’amministrazione comunale di centrodestra del sindaco forzista Raffaele Russo, un ex socialista di lungo corso che nel 2010, all’inizio del suo mandato, sposò senza se e senza ma il «sì» al referendum Fiat. «Il nostro stabilimento era la vergogna d’Italia, ora siamo il modello. Marchionne è stato un gigante, ha salvato l’industria automobilistica a Pomigliano», è l’idea anche oggi di Pasquale Sanseverino, il giovane assessore al Patrimonio.

LA FABBRICA DELLE CONTRADDIZIONI

Il futuro quindi, il futuro e basta. Una recisione con il passato recente è già stata decisa, ed è la fine della Panda a diesel. Ma quale macchina arriverà qui entro il 2022, quando la superutilitaria più venduta d’Europa andrà a fare la sua buona vecchiaia in Polonia? Oggi ogni turno produce 455 vetture, 100 in più rispetto a qualche anno fa, ma senza il rientro nel ciclo produttivo di tutti i lavoratori. Più vetture, stessa forza lavoro. Risultati umani e organizzativi sostenuti da tecnologie all’avanguardia che sono valsi allo stabilimento ora guidato dall’ingegnere napoletano Francesco Eroico la medaglia d’oro del World class manifacturing.

Record produttivi e cassa integrazione. Eccellenze e "confino". La certezza Panda e il mistero sulla seconda macchina da mettere in produzione. Successi innegabili, contraddizioni altrettanto innegabili, paure legittime. Tutto sotto i piedi e sopra la testa di 4.500 uomini e donne. Un quarto rispetto ai 18mila degli anni ’70, quando la Fiat non solo stava a Pomigliano, ma era Pomigliano. Quando la Fiat chiudeva nel giorno del patrono San Felice, mentre negli ultimi anni azienda, sindacati e lavoratori hanno volentieri barattato la festività religiosa del 14 gennaio con un ponte estivo in più. Un’altra era rispetto a 30 anni fa, quando in fabbrica mise piede Antonio. Il suo lavoro è logistico, porta i pezzi al montaggio. Nel 2010 ha votato «no» e non se ne pente. Pensa anche di averla pagata, quella scelta, con il lavoro "a chiamata" che all’inizio lo vedeva sempre escluso. «Ne è valsa la pena, fare questi sacrifici, avere operai che escono curvi dallo stabilimento, se otto anni dopo siamo allo stesso punto di prima?», si chiede. Però a 50 anni e con due figlie che devono studiare sa che il bivio è sempre più stretto e quindi sì, che vada avanti il piano-Marchionne. La pensa così pure Ciro, che sta al montaggio, nel 2010 ha votato «sì» e ora guarda con disincanto a queste ore. «Non c’è cattiveria in fabbrica verso Marchionne e verso nessuno, però c’è gente che è stata in cassa integrazione a 700 euro al mese per due anni, che si è indebitata pure per curarsi e non ce l’ha fatta. Questo nessuno lo dimentichi».

D’altra parte il dramma sociale è realtà, non finzione: ne è la prova la costituzione da parte del parroco del centro storico, don Peppino Gambardella, di un fondo che ha aiutato decine di cassintegrati, precari e disoccupati della crisi industriale di Pomigliano. Dopo una partenza sprint, però, Gambardella si è trovato isolato e non ha risparmiato accuse anche a uno dei partner della prima ora dell'iniziativa, la Fiom di Landini. Ma, in generale, è stato questo l’ennesimo segnale di un distacco emotivo tra la città e la “sua” fabbrica.

«ABBIAMO DATO TUTTO»

La frustrazione è un sentiment che c’è, nel Giambattista Vico. Anche se non è, per amor di verità, maggioritario. Pure perché gli ultimi ammortizzatori sociali, con l’aiuto di Stato e Regione, hanno garantito a tutti assegni di minimo 1.200 - 1.300 euro mensili. E chi esce dalla cassa integrazione resta nell'orbita del gruppo con i contratti di solidarietà. Tra l’altro il nuovo round negoziale sulla cig si sta svolgendo sotto lo sguardo del ministro del Lavoro Luigi Di Maio, che nello stabilimento-simbolo della "sua" Pomigliano ha mietuto massicci consensi. Ora, però, la campagna elettorale è finita e già la semplice assenza del vicepremier M5s all’incontro della settimana scorsa tra dicastero e parti sociali ha alimentato una certa delusione tra le tute grigio-blu.

Forse con proporzioni diverse rispetto al 2010, ma in generale la fiducia (convinta o obbligata) nei piani di «Sergio» vince ancora la protesta. Anche Francesco è qui dal 2005, è un «Marchionne’s boy» a tutti gli effetti, sta al reparto delle plastiche. «Chiunque avrebbe fatto le sue scelte impopolari – spiega –. Qui, quando sono arrivato io, la metà degli operai non faceva nulla e nemmeno si metteva la tuta a inizio turno. C’era lassismo e il sindacato difendeva chi non aveva voglia di lavorare. Poi abbiamo dimostrato di saper cambiare. Il futuro ce lo siamo meritati». Il cambiamento radicale lo ammettono tutti, anche gli avversari dell’ex «padrone» morto ieri a Zurigo. E sul punto cruciale, alla fine dell’era Marchionne, nessuno può avere più dubbi: non si può togliere il futuro a questo pezzo di Sud che ha dovuto, voluto e saputo cambiare volto per tenersi il posto di lavoro.

LA CHIESA: I NUOVI MANAGER NON PENSINO SOLO AL PROFITTO

Nei momenti più duri delle infinite e numerose vertenze-Fiat, in modo spontaneo operai e sindacati, e a volte anche il management dell’azienda, si sono rivolti al vescovo di Nola per trovare parole di coraggio o di mediazione. È così anche oggi, come fu nel biennio terribile 2009-2010. Allora l’ordinario diocesano era il vincenziano Beniamino Depalma, che non senza tormenti, a ridosso del referendum, chiese ai lavoratori di avere fiducia nel piano-Marchionne. Ora alla guida della popolosa diocesi campana c’è Francesco Marino, che il mondo-Fiat l’ha già incrociato quando era vescovo di Avellino per le vicende dello stabilimento – altro caso delicatissimo - di Pratola Serra. «Il mio pensiero in queste ore ­– spiega Marino – è sia per la famiglia di Marchionne sia per i lavoratori. Gli operai attendono che si dia seguito alle prospettive di crescita e piena occupazione indicate dal Consiglio di amministrazione di Fca. Quanto prima attendiamo un segnale dei nuovi vertici del gruppo che confermino quanto tutti auspichiamo, ovvero che il futuro degli stabilimenti presenti nel nostro territorio è fuori discussione e che non ci sarà alcun baratto tra prospettive di lavoro e diritti. A maggior ragione ora che si fa di nuovo ricorso agli ammortizzatori sociali, mi sento di
dare voce alla preoccupazione e alle speranze delle famiglie che nelle fabbriche hanno messo e mettono enormi sacrifici, fatica, competenza e passione».

Si estranea, la Curia nolana, dall’esprimere affrettati giudizi storici sull’operato di Marchionne. «È il tempo del rispetto, condanniamo sempre quando si fa sciacallaggio mediatico. L’umanità che abbiamo chiesto più volte a Marchionne verso i lavoratori è un sentimento che ora rivolgiamo a lui e ai suoi familiari», stringe il discorso don Aniello Tortora, direttore della Pastorale sociale e parroco proprio nelle “Palazzine” di Pomigliano, il quartiere nuovo della città nato sulla scia del boom industriale del dopo-guerra trainato da aereonatica e automotive. Due pilastri cui sono stati dati, negli anni, colpi d’ascia fortissimi. La storia dello stabilimento Fiat degli ultimi dieci anni, spiega don Tortora, è fatta delle proverbiali «luci e ombre». «Marchionne ha salvato la Fiat e il sito industriale, ma è un dato di fatto che ci sono state ricadute sociali drammatiche. Ancora adesso centinaia di lavoratori sono in cassa integrazione e vanno in fabbrica pochi giorni al mese nonostante si sia rinunciato a una quota non irrilevante di diritti e per lungo tempo si sia persa l’unità sindacale». Per mantenere lo stabilimento le cose forse non potevano andare diversamente, è il pensiero della Curia di Nola e di don Tortora, ma nemmeno ci si può adeguare alla lettura di Pomigliano come “Eldorado” dell’industria meridionale. E se è vero, prosegue don Tortora, che ora i conti Fca sono a posto, allora è il momento buono di applicare quanto dice la Centesimus annus, l’enciclica di Giovanni Paolo II a cento anni dalla Rerum Novarum: «È possibile che i conti economici siano in ordine e gli uomini umiliati e offesi. Ciò è moralmente inammissibile e ha riflessi negativi anche per l’efficienza economica dell’azienda», dice il documento scritto da Wojtyla nel 1991. Parole che don Tortora fa sue anche oggi, perché proprio la Chiesa ha visto da vicino l’abnegazione con cui gli operai hanno accettato, nell’era-Marchionne, regole di lavoro nuove e stringenti: ora è il tempo di restituire loro un bene troppo a lungo sottratto, una fiducia più solida nel futuro.

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