sabato 26 marzo 2016
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INVIATO A IDOMENI (GRECIA) Piove anche oggi, e l’orizzonte si fa ancora più triste. L’acqua sfrigola sui tetti di cellophane, batte sugli abiti, gocciola nelle scarpe. Aldar e Alì, fratellini siriani, seduti su un cartone messo per terra, si stringono più che possono nei loro giaccotti di freddo cotone. Allungano le loro mani di bambini, e provano a catturare falangi di calore da un braciere tra due ciocchi di legno. Un fuoco senza fiamma, perché deve durare il più a lungo possibile. Lo sguardo silenzioso di Abdulhazziz è rivolto alla moglie Maha. Sono due cinquantenni, insegnanti, fuggiti da Homs, in Siria. La donna affetta cipolle. Unico ingrediente per la zuppa. Neanche una lacrima fa da perla a quel volto incorniciato da un velo nero. Raduan Seko, curdo siriano, è nato con la polio che gli ha divorato le gambe. Fedele compagna di vita la sua sedia a rotelle. E poi c’è la sorella che spinge. Parlano di Europa, di Olanda: «Ci sono nostro padre e nostra madre, là da voi». Nonostante la sua condanna a vita da disabile, Raduan era felice, prima della guerra. Adesso guarda i bus della polizia greca e sogna un viaggio più confortevole di quello che lo ha portato fino a questo muro. Fino a questo traguardo di vergogna. Dove rabbia e frustrazione non si nascondono più. Nuvole basse e bigie accarezzano verdi cam- pi dove, su una collina non lontana dal villaggio di Idomeni, una magra povertà contadina di greci e albanesi, che conta 150 abitanti, affacciata sulla frontiera con Fyrom (l’Ex repubblica jugoslava di macedonia), è piantato un obelisco di marmo bianco. Ricorda i «figli eroici dell’Italia, della Francia, della Gran Bretagna della Grecia e della Serbia, che fedeli ai precetti dei loro antenati hanno combattuto in questi luoghi e sono caduti per la libertà e la pace mondiale 19161918». Nazioni che di li a vent’anni si sarebbero poi ritrovate su fronti opposti, per la più terribile Seconda guerra mondiale. La memoria di quegli anni, di sangue e dolore, ha trovato il suo riposo eterno negli sbiaditi ricordi marmorei di cippi e cimiteri militari e in un museo. Mentre ancora lungo e incerto, e vieppiù intricato, appare il cammino dell’uomo alla ricerca della 'pace mondiale'. Bisogna provare a chiudere gli occhi un momento, e nel buio cieco della propria vista lasciarsi andare alle immagini di quei terribili anni su questi campi di due guerre letali e sembra proprio di sentire il clangore di quelle moderne, quelle del nostro oggi. Ce lo raccontano il rumore di Idomeni, il brusio, lo scalpiccio nervoso e stanco che fende la pioggia, che sguazza nelle pozzanghere, le parole che tremano per il freddo, di chi va alla ricerca di un ceppo di legna ancora verde da bruciare, di chi mastica un uovo sodo per pranzo e intanto ti raccontano la loro storia identica a mille altre: «Sono ancora vivo perché sono scappato. Ma ora qui mi sembra di morire lentamente in questo nulla». Non ci si può confondere quando si entra in questo grigio orizzonte di una tendopoli che ufficialmente non esiste, spalancando gli occhi all’attualità di questa luogo dinnanzi a chi, oggi, suo malgrado, col suo destino, è spinto a oltrepassare il fiume Axios, gonfio d’acqua tonante, e cerca di condurre il suo cammino di migrante di guerra che vuole correre il più lontano possibile da quel pericolo da cui è fuggito e si è salvato. Ma l’'uomo di Idomeni' qui ha trovato la porta chiusa e si è dovuto inginocchiare a un ordine: 'Fermati'. Da oltre un mese, da quando Macedonia, Serbia, Croazia, Slovenia, Austria hanno deciso che sulla rotta balcanica non si passa più, sta aspettando una sola cosa: un ponte che gli faccia superare questa altra trincea, come le tante che ha dovuto oltrepassare sotto il tiro dei cannoni e dei cecchini. Li hanno stimati in circa 15.000, tantissimi ragazzi, diverse famiglie con molti bambini, soprattutto siriani e curdi, e poi iracheni, e molti yazidi, afghani e pakistani. Esausti, stanchi per questa sosta obbligata, per questa miseria sporca di fango, che non crea altro che rabbia, tensioni sfociate in risse tra i migranti, timori tra le ragazze, e frustrazione negli adulti che non riescono a vedere una luce all’orizzonte di questo cul-de-sac. Non è rimasto che attrezzarsi e bivaccare dove capita, a macchia di leopardo attorno al borgo di Idomeni dove di notte, raccontano gli abitanti nel villaggio «loro, vengono a rubarci le galline ». E poi protestare. Bloccare l’autostrada. Ma non serve a niente. La loro voce non si sente lontano da qui. Panagiotis Kouroumplis, il ministro dell’Interno greco, il giorno che è venuto a vedere questo luogo di raccolta umana, è stato lapidario nel descriverlo: «Un campo di concentramento come a Dachau». Ingenti sono gli sforzi che stanno facendo le organizzazioni umanitarie tra cui Medici senza frontiere, Save the children e la Caritas. Sempre gli stessi nomi, sulla prima linea della sofferenza dell’uomo. Intanto che la politica guarda da un’altra parte e tace. La vita a Idomeni s’è fermata sui binari della linea ferroviaria, ad appena duecento metri dalla frontiera. Piccole tende e teli di plastica, e piccoli commerci improvvisati. Chi vende verdure, chi sigarette. C’è anche un mercatino settimanale organizzato dai Rom. Si vive così a Idomeni. Gli occhi puntati sul filo spinato che separa questi fuochi primitivi dove rimestare una zuppa in un barattolo di latta nero di fuliggine, sperando, un giorno, di toccare la pace nella libertà. © RIPRODUZIONE RISERVATA Reportage IDOMENI Due piccoli profughi siriani
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