mercoledì 4 marzo 2020
Nel sud ovest del Niger l'internazionale del terrorismo mette in fuga le popolazioni per finanziarsi con il traffico di esseri umani, le armi e la droga. Ma la risposta non deve essere solo militare.
Sahel, il caldo confine del Jihad e degli affari
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Nella zona delle tre frontiere tra Mali, Burkina Faso e Niger, nel sud-ovest nigerino, si gioca il futuro non solo del Sahel. L’area brucia da tempo, ora la situazione è incandescente. I terroristi jihadisti che da 7 anni si sono impadroniti delle terre di confine del Mali sconfinano abitualmente in Niger per colpire scuole, chiese e intimidire i musulmani che non vogliono arruolarsi. E da mesi i membri del cosiddetto Stato islamico dell’Africa Occidentale (Iswap), che mira a creare il califfato del Sahel, hanno intensificato gli attacchi in Burkina Faso. Le truppe maliane e burkinabè non hanno saputo fermare le colonne motorizzate delle milizie jihadiste che colpiscono con bombe, rapiscono e uccidono con brutalità crescente e rapidità. Sono i foreign fighters venuti prima in Libia dalla Siria e poi fuggiti nel deserto. Ceceni, azeri, siriani, iracheni, libici unitisi ai miliziani locali.
Le vittime si sono sestuplicate nei tre Paesi, da 770 nel 2016 a 4.400 nel 2019. La settimana scorsa 4.000 persone sono state costrette a lasciare le case per gli attacchi dello Stato islamico. Una possibile catastrofe che riguarda Italia e Ue, molto interessate al Niger dopo il collasso libico, per due ragioni. La prima è che gli attacchi fanno aumentare il numero dei profughi e da qui passano le rotte migratorie verso la costa mediterranea sulle quali vengono trasportate anche armi e droga. La seconda è che questi traffici finanziano non solo le bande di trafficanti, ma anche l’internazionale del terrore.
Che a dicembre ha alzato il tiro colpendo la base militare di Inates, in Niger, nella regione occidentale di Tillaberi, uccidendo 73 militari nel più grave attacco mai sferrato dai jihadisti. Inates è vicina alla riserva faunistica maliana di Ansongo, sede dei miliziani, ed ai villaggi di Akabar e Tabankort, crocevia per trafficanti di droga, armi e miliziani.

Il Niger dunque da 5 anni è la nuova frontiera europea. Per arginare jihad e immigrazione irregolare, Niamey ha ricevuto aiuti economici e militari. Il quadro di militarizzazione è in crescita. Il Paese ospita i contingenti francesi dell’operazione Barkhane (oltre 5.000 militari), l’aviazione statunitense che qui ha la seconda base d’Africa dalla quale decollano i droni, poi i tedeschi e 290 soldati italiani incaricati ufficialmente di formare le truppe locali. A fine febbraio l’Unione africana, data l’ostilità locale verso Parigi, ha deciso di inviare un contingente di 4.500 militari. Il 20 febbraio scorso i militari nigerini e i francesi hanno diramato un bilancio del contrattacco lanciato nel sud-ovest: 120 miliziani uccisi.

Ma il reclutamento dei jihadisti non si indebolirà finché non si iniziano a prendere di petto le cause della povertà in un Paese all’ultimo posto mondiale nell’indice di sviluppo umano, dove il sistema scolastico pubblico è crollato (l’80% dei nigerini è analfabeta), dove le disuguaglianze crescono e la disaffezione verso la politica è enorme. I jihadisti, bruciate le scuole, le sostituiscono con le madrasse, le scuole coraniche, e combattono l’indigenza con la carità islamica.

Ma non è un conflitto etnico – come qualcuno pensa – tra pastori peul e agricoltori, i gourmancé. È una vera guerra tra poveri ed è su questo terreno che si batte il terrore e si arginano i flussi di irregolari. Occorre anzitutto un’offensiva europea contro la corruzione e la maledizione delle risorse che affligge anche questo Paese. Dove l’uranio è sfruttato da 60 anni dai francesi senza creare sviluppo locale, il petrolio è estratto dai cinesi, che con i proventi si ripagano ad esempio i ponti costruiti sul Niger e i palazzi di Niamey, mentre i turchi si tengono i danari del duty free del nuovo aeroporto per saldare il debito contratto dal governo nigerino.

Nel Niger che vive di sussistenza e agricoltura, anche l’Italia può aprirsi spazi da protagonista grazie alle sue eccellenze private e a un’agenda di politica estera trasparente. Anzitutto con la cooperazione allo sviluppo, con progetti per istruzione e sanità. Poi facendo crescere l’economia circolare in cui siamo maestri riconosciuti, ad esempio riciclando l’onnipresente plastica. Infine può sviluppare le energie alternative, sole e vento, le ricchezze più diffuse. Nel Sahel l’Italia può investire nella pace e nello sviluppo, le nostre armi contro il terrore.
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