martedì 5 novembre 2019
Dopo i gesti estremi di alcuni ragazzini, psicoterapeuti e assistenti sociali esortano famiglie e scuola a scendere in campo per prevenire gesti estremi
Un treno dell'Alta Velocità nei pressi della stazione di Bologna (Ansa)

Un treno dell'Alta Velocità nei pressi della stazione di Bologna (Ansa)

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Vite che si misurano in like. È questo il metro di valutazione dei ragazzini che rischiano di morire per un selfie sui binari, da scattare pochi secondi prima dell’arrivo del treno come prova di coraggio da postare sui social network.

Il fenomeno non è nuovo in assoluto, ma la novità riguarda l’età dei coinvolti e la frequenza con cui accade. È sempre il sabato pomeriggio il momento della follia che coglie i protagonisti del gesto che, più che un gioco, è un tentativo di suicidio. È il 19 ottobre a Borgo Panigale, nella prima periferia di Bologna: tre adolescenti, di età compresa tra i 15 e i 16 anni, sorpresi sui binari dalla Polizia Ferroviaria, vengono sanzionati e riaffidati ai genitori. Fanno parte di un gruppo di otto, tutti identificati. Il sabato successivo, 24 ottobre, accade di nuovo, sui binari della linea Milano-Bologna, poco dopo il bivio di Santa Viola. Stavolta i ragazzini hanno meno di 14 anni. Devono la vita alla prontezza del macchinista alla guida del Frecciabianca 8523, che alle 17.35 riceve la chiamata di un collega appena transitato in quel tratto di rete ferroviaria, che gli riferisce di avere visto delle persone sui binari. Il macchinista riduce la velocità a 30 chilometri orari e, superato il bivio, li scorge. Sono quattro, poco più che bambini: stanno giocando sui binari dell’Alta Velocità.

Il macchinista ferma il mezzo, il capotreno scende e li insegue mentre si danno alla fuga attraversando altri binari in uso e rischiando di farsi travolgere. Uno di loro, spaventato, si blocca: alla Polfer non è in grado di spiegare cosa stesse facendo lì. Ci pensa la tecnologia a rivelarlo: le telecamere di sorveglianza riprendono i giovanissimi mentre si sistemano sui binari, telefonini alla mano, aspettando un treno di passaggio. I poliziotti accompagnano a casa il ragazzino, cercano di spiegare che ha rischiato la vita. I genitori lo accolgono sconvolti: sono una famiglia normale, con un figlio normale che, forse, voleva solo emulare amici "sbagliati", o era annoiato.

Cosa spinga questi giovanissimi a sfidare la morte non è facile da capire. «Il motivo non è mai lo stesso per tutti – spiega Giorgia Girotto, psicologa e psicoterapeuta che si occupa di adolescenti per il Centro di clinica psicanalitica Jonas Onlus, fondato da Massimo Recalcati –. L’adolescenza inizia sempre prima: già a 11 anni vediamo nella clinica giovanissimi che ne manifestano le caratteristiche. Ci sono campanelli d’allarme che è compito delle famiglie e poi della scuola cogliere, ad esempio l’ansia, l’aggressività, il ritiro, il silenzio: sono tutti sintomi che, portati all’eccesso, possono indurre nel giovane comportamenti estremi». Ma perché questi ragazzi non riescono a fermarsi prima? «Il fenomeno è sociale. Spesso il disagio si trasforma in un "urlo silenzioso", che si traduce in gesti estremi che colpiscono se stessi e il simile».

E l’assenza della famiglia è il primo elemento che emerge anche tra i ragazzini che si rivolgono ai servizi per i giovani del Comune di Bologna, di cui è responsabile Laura Tagliaferri: «Lavoriamo molto sulla prevenzione, con laboratori nelle scuole in cui affrontiamo l’immagine che i ragazzi vogliono dare di sé sui social, della noia dei lunghi pomeriggi che trascorrono da soli. Ma ormai i bambini hanno il cellulare sin dalle elementari. I genitori pensano sia una forma di controllo sui figli in loro assenza: la verità è che non hanno alcun controllo sulle app e sui social che installano, così diventano facili prede di malintenzionati e bulli o vittime dell’ansia da like e da emulazione. Sono i genitori, per primi, a dover essere educati».

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