mercoledì 29 novembre 2017
Sono africani il 16,52% dei reclusi in Italia. Poveri, lontani dalle famiglie: per loro è più facile finire in carcere e più difficile accedere alle misure alternative. Ecco perché
I migranti? Calpestati anche dietro le sbarre
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Se sei africano, sarà più facile finire in prigione. E restarci. Forse per una "vocazione" a trasgredire e delinquere più forte fra gli stranieri che fra gli italiani, come vuole la vulgata populista e securitaria che va per la maggiore? No. La realtà delle cose dice altro. Dice, ad esempio, che «agli stranieri si applica con maggiore facilità la custodia cautelare in carcere», in particolare per il «pericolo di fuga» o di «reiterazione della condotta illecita». Dice, dati alla mano, che in materia di misure alternative «i detenuti o condannati stranieri hanno difficoltà ad accedervi principalmente perché non hanno radici stabili nel nostro Paese», annota Mario Angelelli, presidente di Progetto Diritti onlus.

È, questa, una delle voci raccolte nel dossier "L’Africa dietro le sbarre" pubblicato dalla rivista Nigrizia, storico mensile dei Comboniani. Un ritratto lucido e appassionato, quello presentato ieri nel teatro della casa di reclusione di Opera, alle porte di Milano, dall’autrice del dossier, Carolina Antonucci, alla presenza del direttore di Nigrizia padre Efrem Tresoldi e del redattore Gianni Ballarini, introdotti dal direttore di Opera, Giacinto Siciliano (che presto andrà a dirigere San Vittore) e dal cappellano don Antonio Loi, moderati dal consigliere regionale Fabio Pizzul, in dialogo con Valeria Verdolini, sociologa del diritto, presidente di Antigone Lombardia, e con le testimonianze offerte da alcuni detenuti. Come Samuel, fuggito dalla Nigeria, dove gli hanno ucciso il padre, la madre, i fratelli, le sorelle: arrivato in Italia, la combinazione micidiale di povertà, marginalità, assenza di legami e reti lo ha trascinato in una deriva che lo ha portato fino al carcere.

Meno diritti, meno futuro

«Per uno straniero è più facile essere fermato e arrestato. E gli sarà più difficile avere un bravo avvocato, vista la sua fragilità economica, come gli sarà più difficile accedere alle misure alternative, pensate per chi – com’è in genere per il detenuto italiano – ha famiglia, relazioni stabili, una comunità di riferimento – spiega Verdolini –. Il fatto è che il carcere non corrisponde più alla realtà della popolazione carceraria odierna». L’ordinamento penitenziario, regolato dalla legge di riforma del 1975, ha preso la sua forma attuale prima che le migrazioni internazionali sviluppassero il loro impatto, sottolinea dal canto suo Antonucci.

Ed è una «criminalità di sussistenza, surrogato della possibilità di lavoro, quella che riguarda tanti stranieri: reati commessi per vivere e mangiare», osserva l’autrice del dossier. «Non è facile costruire percorsi di reinserimento per chi non ha famiglia, non ha nessuno, e magari la prospettiva dell’espulsione dall’Italia. Eppure il carcere dev’essere utile, anzitutto per la persona reclusa», aveva detto in apertura il direttore Siciliano. Gli studi, sia nazionali sia internazionali, si ricorda nel dossier, documentano come la pena detentiva sia la più costosa e nel contempo la meno idonea a ridurre la recidiva. Ma per investire sulle misure alternative serve una precisa volontà politica, una lungimiranza auspicata ieri a più voci, perché il carcere sia, come ha detto don Loi, un «imparare a camminare insieme, a condividere speranze».

I numeri

«Nel nostro Paese sono soprattutto tossicodipendenti e migranti a finire in prigione», si legge nel dossier. Al 30 aprile 2017 su 56.436 detenuti in Italia, gli stranieri erano 19.268. Al secondo semestre 2016, sul totale dei carcerati, gli africani erano il 16,52%. Di questi, il 37,37% erano marocchini, il 21,57% tunisini, il 9,92% nigeriani, il 7,25% egiziani e il 4,96% senegalesi. Quasi tutti maschi: il 97,6%. Misure alternative: solo il 3,1% dei reclusi marocchini ne usufruisce, quando rappresentano il 6% sul totale dei detenuti.

Analoga difficoltà d’accesso per tunisini e nigeriani. Fra i problemi messi in risalto dal dossier: la povertà; la lontananza delle famiglie; i trasferimenti, più frequenti per gli stranieri che per gli italiani; la difficoltà di esercitare il diritto al culto; l’«anomalia delle sezioni etniche», formatesi negli istituti di pena e giustificate con «ragioni di sicurezza», ma tali da pregiudicare i percorsi di integrazione, rieducazione e reinserimento.

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