domenica 3 maggio 2020
I reparti del Santorso, uno dei 5 nosocomi che la Regione Veneto ha convertito alla cura esclusiva del Covid–19, sono ancora pieni, soprattutto di degenti delle case di riposo
Il grazie dei medici per il sostegno ricevuto

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Solo camici e mascherine nei lunghi corridoi dell’ospedale di Santorso, nel Vicentino. Nessun paziente in giro. Il nosocomio aperto 8 anni fa ai piedi dell’Altopiano di Asiago è uno dei 5 che la Regione Veneto ha convertito alla cura esclusiva dei malati da Covid-19: da oltre due mesi i positivi vicentini arrivano tutti qui. E, anche se domani inizierà il percorso graduale deciso dal governatore Zaia per riportare a normalità la sanità veneta, i 4 reparti creati da zero per affrontare la pandemia sono ancora pieni e si guarda con preoccupazione la “fase 2”.

«Viviamo con preoccupazione le aperture in gradi successivi previste a maggio. Fin dall’inizio abbiamo scelto di curare tutti indistintamente, ma oggi i posti letto sono occupati per lo più dagli anziani delle case di riposo. Aprire potrebbe innalzare il numero di contagi tra i 50-60enni, speriamo di avere le risorse per curarli, com’è stato fino ad ora». La dottoressa Maria Licia Guadagnin è primario di Medicina; gli internisti che dirige guidano a loro volta le unità Covid, affiancati da neurologi, oculisti, anche ortopedici e fisiatri.

Ma il tributo pagato dai sanitari di Santorso non è stato solo professionale; tra gli 80 positivi in isolamento fiduciario a inizio marzo c’era la stessa dottoressa Guadagnin, che ha visto diventare positiva tutta la propria famiglia, fino alla morte del padre. «Questa esperienza insegna che noi medici dobbiamo essere umili. Crediamo di avere le conoscenze e invece spunta dal nulla un virus che ti mette con le spalle al muro e non hai più certezze. Non dobbiamo mai smettere di metterci in discussione».

Il dottor Flavio Sanson coordina l’area medica dell’ospedale Altovicentino, ma non ha potuto partecipare alla riorganizzazione iniziale: il focolaio scoppiato nel suo reparto il 29 febbraio lo ha investito in pieno – assieme ad altri 15 tra medici, infermieri e Oss – e lo ha costretto alla quarantena. «Come medico e paziente insieme, ho provato un forte smarrimento, un senso di rabbia e di impotenza. Tutti siamo tornati alle radici della nostra vocazione, ma ognuno di noi ha fatto i conti con la paura che ha dettato le scelte iniziali. Ricordo le conversazioni con padri e soprattutto madri che non hanno esitato a farsi avanti, nonostante i figli piccoli o i genitori anziani a casa».

A Santorso sono venuti a dar man forte anche medici pensionati, come pure giovani da fuori. Okab Gubas è un medico 29enne di origine israeliana, laureato a Messina: «Scoppiata la pandemia ho scritto a tutte le aziende sanitarie. Santorso mi ha chiamato per prima ed eccomi qui – spiega dalla corsia –. Mi sarei sentito in colpa a rimanere a casa, avendo la possibilità di dare speranza a qualcuno, anche se non ho molta esperienza».

Ma tutti riconoscono pure l’apporto basilare degli infermieri. Lidia Bertorelle coordina una cinquantina di colleghi: «Abbiamo dovuto rivoluzionare le abitudini; con i dispositivi di sicurezza il contatto con il paziente è praticamente azzerato. I momenti più emozionanti? Le chiamate dei degenti ai famigliari, spesso ci commuoviamo. Il più duro: consegnare ai parenti gli effetti personali di chi non ce l’ha fatta». A sostenere Lisa Ferretto, coordinatrice in terapia semintensiva, è la forza d’animo: «Da due mesi non ci fermiamo. Creare nuovi percorsi di cura è stato molto complesso, ma ho sempre sentito che non posso mollare, anche se sono molto più in ospedale che a casa: i momenti di sconforto non mancano, ma dalla prima linea abbiamo sempre sentito il supporto del territorio». © RIPRODUZIONE RISERVATA

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