venerdì 3 luglio 2020
Farmaci e medicinali mai arrivati negli ospedali, opere urbane promesse nei quartieri e non realizzate. Quei segreti sui fondi italiani finiti dal 2017 anche a tribù e capibastone delle municipalità
Miliziani libici del governo di unità nazionale, riconosciuto dall'Onu, nella città di Tarhouna, 65 km da Tripoli

Miliziani libici del governo di unità nazionale, riconosciuto dall'Onu, nella città di Tarhouna, 65 km da Tripoli - Ansa/Afp

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Quanti soldi dall’Italia e dall’Europa sono arrivati in Libia? La risposta è uno dei segreti meglio custoditi nel continente. A cominciare dai fondi alle “municipalità”. Enti locali in gran parte in mano a clan e milizie che solo nel 2017, dopo che l’Italia negoziò e ottenne il calo delle partenze, sono costati ai contribuenti almeno 18 milioni di euro.

Non è che la punta dell’iceberg. Come dimostrano i 318 milioni scuciti all’Unione Europea senza che questo abbia portato né pace né diritti umani. Il caso dei “sindaci”, però, è esemplare. Uno dei documenti riservati ottenuti da Avvenire racconta della trattativa tra i capibastone libici e i funzionari italiani. A ogni pagina del fascicolo sono stampate le insegne della diplomazia italiana. La Farnesina, a cui abbiamo chiesto un commento, «non è in grado di confermare, né di smentire».

Si chiama: «Progetti delle Municipalità Libiche». Soldi che avrebbero dovuto potenziare il sistema scolastico, migliorare la raccolta dei rifiuti, facilitare la distribuzione dell’acqua potabile, migliorare la condizione di ospedali. La lettura di quelle non poche pagine suggerisce che non dev’essere stato un negoziato facile. Roma finora ha complessivamente messo in campo (sotto forma di aiuti, equipaggiamento, motovedette, forniture e denaro contante) oltre 450 milioni di euro, di cui un centinaio provenienti da Bruxelles. Nulla si sa (e forse mai si saprà) di impieghi attraverso i fondi riservati dell’intelligence.

Qualcuno in Libia aveva preso l’Italia per un bancomat. Ad esempio le tribù di Bani Walid. La richiesta monstre era di 85 milioni di euro. Da Roma finiranno per approvare 1,1 milioni. Oppure Maya e Sabratha. La prima, un sobborgo sulla strada tra Tripoli e la Tunisia, arriva a domandare 9 milioni in un colpo solo per mettere a posto mezza città. Gli emissari di Roma alla fine assegneranno per quell’anno non più di 400 mila euro. A Sabratha, dove neanche la sabbia si sposta senza il benestare dei Dabbashi, di milioni ne hanno chiesti 7,7 per acquistare «apparecchiatura di risonanza magnetica» del valore di 1,8 milioni più altri 5,9 milioni per Tac, unità per raggi x, microscopi, sterilizzatori e altro materiale. Il preventivo italiano si fermerà a 1,5 milioni.

Più generosa Roma si mostrerà con la città di Zawyah, capitale delle partenze dei migranti verso l’Italia e quartier generale del contrabbando di idrocarburi. L’intera provincia è tenuta sotto schiaffo dalla milizia al Nasr, quella dei fratelli Kachlav e dell’onnipresente guardacoste Bija. Quest’ultimo era già stato accolto in Italia nella primavera del 2017. Poche settimane dopo il flusso dei barconi precipitò al minimo storico. Il preventivo del 3 ottobre 2017 assegnerà a Zawyah 1,8 milioni, 400mila euro in più di quanto avesse chiesto la parte libica. Denaro interamente stanziato per la «fornitura di medicinali ed equipaggiamenti medici per l’Abu Surra Village Hospital».

Quando contattiamo le fonti in Libia per verificare se il materiale sia mai arrivato, come risposta scoppiano a ridere: «Quello di Abu Surra è poco più di un dispensario – spiega un operatore internazionale –. Se medicinali e strumentazioni sono arrivati in questo ambulatorio, li avranno consegnati di notte e fatti sparire la mattina, perché qui non si è visto quasi nulla. Qui manca sempre tutto».

Anche in Europa la trasparenza è una chimera. Sulla carta ogni centesimo di euro è controllato. In realtà una volta presa la rotta libica, sapere cosa davvero ci facciano coi soldi diventa un rompicapo. Ad oggi 318 milioni di euro sono stati sborsati dall’Eutfa, il Fondo fiduciario di emergenza dell’Ue. Finanziamenti che avrebbero dovuto migliorare le condizioni di vita per libici e migranti. Tutti i report del segretario generale dell’Onu, però, ribadiscono un costante peggioramento. Il timore di vedere arrivare decine di migliaia di migranti, però, ha finito per far dirigere il gioco proprio ai trafficanti. Come a Zuara, altra roccaforte degli scafisti. All’Italia chiedevano 10 milioni e mezzo. Riceveranno l’ok per una prima tranche da 1,7 milioni.

«Il problema – arguisce una fonte umanitaria italiana in Libia – sta nel fatto che non ci sono controlli. In teoria tutti i macchinari, i medicinali, le strumentazioni indicate nei preventivi possono essere stati regolarmente acquistati, ma poi chi sorveglia se finiscono davvero negli ospedali o vengono rivenduti al mercato nero internazionale?».

Un sanitario di una Ong straniera è ancora più diretto: «Tranne quello con i militari italiani a Misurata, fuori da Tripoli non c’è un ospedale decente. Da anni sentiamo di soldi destinati ai servizi di base. Abbiamo visto qualche autocompattatore per i rifiuti, alcune pompe a motore per l’acqua, computer nuovi in qualche scuola. Ma poi se stai male devi avere qualche buon amico al ministero della Salute a Tripoli o abbastanza soldi per comprare il permesso per curarsi a Malta o in Italia».

Le falle non permettono di sapere, ad esempio, da dove i fratelli Kachlav abbiano preso i soldi per costruire ed equipaggiare una clinica privata a Zawyah. All’inaugurazione, il 22 ottobre 2019, c’era il “proprietario”, quel Mohamed Kachlav inserito con Bija nella lista nera di Onu, Ue e Dipartimento di Stato Usa perché accusati dei traffici di persone, armi e petrolio. Accanto a lui, a tagliare il nastro, il sindaco della città che due anni prima aveva chiesto all’Italia 1,4 milioni per il desolante “Surra Village Hospital”. Il municipio sulla sua pagina ufficiale Facebook aveva pubblicato le foto della cerimonia, con i locali tirati a lucido, gli ambulatori, le attrezzature ancora nel cellophane. Qualche ora dopo le immagini sono state fatte sparire.

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