domenica 11 gennaio 2015
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Il pulmino della chiesa cattolica di Mérsin al sabato pomeriggio fa il giro dei quartieri periferici. Raccoglie i figli dei dimenticati della diaspora siriana. Prima ancora del catechismo, bisogna imparare il turco. «Ma loro apprendono in fretta», dice un’animatrice parrocchiale. A questi bimbi la vita ha già insegnato che tutto, all’improvviso, può cambiare. Un giorno gli adulti hanno smesso di sorridere e gli anziani hanno cominciato a piangere.  «Non abbiamo fatto in tempo a salutare neanche la Madonna, ma durante la marcia non abbiamo fatto altro che pregare Dio», racconta Maryam. Con la famiglia ha provato a farsi ospitare in una tendopoli lungo il confine.  «Ma abbiamo capito che noi cristiani non siamo i benvenuti». Gli ultimi tra gli ultimi. Vivere nei campi, in questi giorni di pesanti nevicate, significa rischiare una polmonite. Ma in compenso lì arrivano gli aiuti umanitari e non si muore di fame. Non resta che discendere dai valichi verso il mare, dove è più facile nascondersi nelle periferie delle città più grandi. Come Ismail, che ad Aleppo lavorava per un hotel a cinque stelle di una nota catena americana. «Quando hanno ucciso i miei cugini ho capito che dovevo portare via mia moglie e i nostri tre bambini ». Ha marciato per giorni fino a guadagnare il confine nord. «Per procedere verso la Turchia abbiamo dovuto pagare le milizie e i doganieri: 500 euro a persona, e siamo rimasti senza soldi». Un lavoro non ce l’ha. Un vicino turco lo porta a giornata nei cantieri edili: 9 euro per caricare mattoni dalle 6 del mattino alle 7 di sera. I muratori turchi per lo stesso lavoro guadagnano il triplo. I soldi bastano appena per l’affitto. La parrocchia di Sant’Antonio fa quel che può. Grazie a 20 mila euro ricevuti attraverso «Aiuto alla Chiesa che soffre», 40 famiglie sono state aiutate per un anno intero. Intanto altri cristiani bussano alla porta e in mancanza di nuovi fondi le casse sono agli sgoccioli. Agli inizi dell’800 Mérsin era un borgo di mille pescatori, di cui solo cinque cattolici. Grazie allo sviluppo del commercio verso Europa ed Egitto, già a metà del secolo la borgata marinara divenne una grande città e i frati si misero a servizio dei cristiani giunti da ogni dove. Maroniti dal Libano, in seguito ai conflitti tra musulmani e cristiani; greci ortodossi provenienti dalle isole dell’Egeo; armeni in fuga da Cappadocia e Siria. Nel 1941 la chiesa offrì alloggio ai rifugiati cechi, maltesi e polacchi, i quali, prima di emigrare in Palestina, a ricordo del loro soggiorno a Mérsin hanno lasciato l’immagine della Madonna di Czestochowa da loro stessi dipinta, ancora visibile sopra il portale d’ingresso. Poi durante la Guerra del Golfo (1991) sarà la volta dei caldei fuggiti dall’Iraq. Insomma, nessuno come nella piccola comunità cattolica di Mérsin sa cosa vuol dire essere cristiano in fuga.  Un’opera di accoglienza e mediazione con la comunità turca. Intorno ai profughi si respira infatti aria pesante. E i cristiani, la minoranza più debole, sono i più esposti. In un sondaggio pubblicato a dicembre, la Hacettepe University di Ankara ha avvertito che la soglia di tolleranza dei turchi ha raggiunto il limite e l’ostilità contro gli sfollati potrebbe esplodere. Per la ricerca oltre il 70% dei turchi vede i siriani come un onere economico oltre che concorrenti sul lavoro. E il 50% ha reagito con d isappunto all’idea di avere vicini di casa siriani. «Finora la società turca aveva mostrato un alto livello di accettazione sociale dei siriani e ha cercato di sostenerli», annotano i ricercatori di Ankara, ma in mancanza di una politica di accoglienza e stabilizzazione, «è probabile che la xenofobia si diffonda rapidamente, alcuni gruppi potrebbero compiere degli attacchi».  Anche oggi a Messa si farà festa, nonostante tutto. «Siamo un piccolo gregge – dice una religiosa – abbiamo bisogno di stare insieme».
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