sabato 21 aprile 2012
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Un conto sono le statistiche. Un conto è l’anziano che ogni giorno si ferma lì, nell’angolo semibuio del bar, cercando di non esser visto mentre butta via la sua pensione. All’inizio usa il resto del caffè: due euro, e quello che avanza finisce nella macchinetta, giusto per far passare dieci minuti. Poi il caffè inizia a pagarlo con 5 euro e il resto finisce sempre nella maledetta macchinetta. Tutti i giorni.C’è lui, il pensionato. Ma c’è anche l’amico di sempre, il vicino di casa in cassa integrazione, la madre di famiglia che lavora al supermercato. Un barista, le persone rovinate dal gioco, le incontra di persona, le guarda negli occhi. E, in alcuni casi, decide di aiutarle.Succede in sempre più città. Una “rivolta” silenziosa, che non ha bisogno di domandare permessi, chiedere licenze o informare i monopoli. A inaugurarla è stato un certo Ivan Fontana, titolare del Bar Perini 131 di Trento. Sulla carta, s’intende: della sua scelta s’è avuta notizia grazie ai quotidiani locali, ma – chissà – forse il primato spetta a qualcun altro. In ogni caso, un bel giorno Ivan s’è alzato, s’è guardato allo specchio e ha deciso: niente più slot nel mio bar. Le aveva messe nel 2009, convinto dal passaparola degli altri colleghi: «E in effetti rendevano bene – spiega –, all’inizio mi sembrava una cosa normalissima averle nel mio locale». Poi la realtà: «Soprattutto con l’avanzare della crisi, ho cominciato a notare che alcune persone erano sempre lì, soldi alla mano. Alcuni li conoscevo, anche, sapevo che storia avevano e che magari non potevano spendere così tanto». Già, ma quando Ivan si avvicinava per dirgli di smetterla, che era abbastanza, loro lo allontanavano stizziti. «Quando è toccato a un mio amico, ho preso la decisione. All’inizio ho tolto una delle due slot: guadagni dimezzati, s’intende», ammette il barista, ma proprio quell’amico di Ivan, e poi quel conoscente, e poi quell’altro ancora ricominciavano a venire nel locale anche solo per il caffè. Di lì a poco la scelta radicale: via anche l’altra macchinetta infernale, al suo posto una di quelle “vecchie”, coi puzzle e i quiz da “milionario”. «Non ho niente contro le slot, voglio dirlo. Ma secondo me non possono essere dappertutto – spiega Ivan –. Trovarsele davanti, per chi è fragile, diventa un incentivo potentissimo».Ivan non è solo. Nel cuore del Trentino in pieno allarme “dipendenza” (qui, solo nel 2011, sono stati giocati 666 milioni di euro, corrispondenti a 1.270 euro pro capite contando anche i neonati e gli ultranovantenni) e proprio a Trento, dove recentemente è stato posto il divieto a slot machine e videolottery nel raggio di 500 metri dai luoghi considerati “sensibili” (scuole, centri ricreativi e sportivi per giovani e anziani, ospedali) anche Diego Pedenzini ha iniziato la sua battaglia personale contro l’azzardo. Una storia tutta particolare, quella del suo bar Torino, situato a 50 metri da un centro di salute mentale: «Siamo qui da un anno e 7 mesi: ho avuto bisogno di tempo per capire come giravano le cose. Dopo un po’ mi sono accorto che molti dei clienti che venivano per usare le slot (due, <+corsivo>ndr<+tondo>) erano proprio pazienti del centro». E allora? «E allora ho iniziato a farmi qualche domanda. Per esempio a cosa serve dire che vogliamo aiutare gli altri se poi, per un po’ di incasso in più, siamo disposti ad approfittarcene nella maniera peggiore». La coscienza più forte del reddito. Diego ha rimandato le slot al mittente: «Pensi che per quegli affari dovevo anche pagare una tassa! Ho risolto così: al loro posto ci ho messo dei tavoli in più, lì nell’angolo, e a pranzo è molto più facile muoversi per servire i clienti. Senza contare che con tutto quel rumore, nel mio bar non vedevo più le famigliole o le coppiette di anziani per la merenda. Ora sono tornate, e io sono contento».Due tavoli in più e tanta tranquillità anche per Fiorella Bertoletti, storica titolare del bar Tio Pepe di Brescia. Che per le slot machine rischiava quasi di finire in terapia: «Mi angosciavano, ero seriamente stressata: l’idea di quelle persone incollate lì dalla mattina alla sera, sempre pronte a chiedermi cambi di monete... Non so come spiegarlo: sono arrivata a un punto in cui non ce la facevo più». Alcuni si fermavano al bancone lamentandosi dei loro problemi, per poi passare il resto della giornata incollati allo schermo. «Altri li conoscevo: a casa avevano problemi, e figli da mantenere – continua Fiorella –. Poi arrivavano al bar e si giocavano anche 300 euro in un colpo solo». Trecento euro? «Lei si stupisce, uno che fa il barista no. La gente è capace di giocarsi anche 500 euro in un pomeriggio. Qualche volta vince, s’intende. Ma quei soldi li tira fuori senza batter ciglio... È questo che non riuscivo più a vedere».Il bene degli altri prima dell’interesse personale. La battaglia dei baristi “indignati” innanzi al gioco d’azzardo passa anche dal piccolo borgo di Toirano, nel Savonese. Da dove il giovane Andrea Mattarozzi ha dato una bella lezione di vita ai baristi suoi coetanei: «Io, le slot, le ho tolte per ragioni spirituali e non mi vergogno a dirlo – spiega tra un caffè e un cappuccio, dietro al bancone del suo bar dei Capitani –. Sono credente, leggo la Bibbia, conosco Gesù. E in tutte queste cose trovo l’invito ad amare gli altri, a fare il loro bene. E poi vengo a lavorare e lì davanti al bancone ho due distributori di droga?». Andrea, le slot, le chiama così: «Ho studiato e leggo molto. So che la dipendenza dal gioco è una vera e propria malattia, di cui tantissima gente soffre – racconta –. Io a un certo punto mi sono chiesto se faccio il bene di queste persone a offrirgli ciò che fa loro male. La risposta è stata no». Un scelta dettata dal cuore, e non dai conti: «Anzi – spiega ancora Andrea – se avessi dovuto ragionare sulla base di quelli avrei dovuto metterne un’altra, di macchinetta, e un’altra ancora». Già, perché in un mese Andrea arrivava a guadagnare 500 e più euro su quegli “scatoloni” tutti luce e bande magnetiche, in una bar di paese dove la clientela non è proprio quella di una grande città. Eppure la gente di qui, da quando Andrea ha cominciato la sua battaglia, al bar dei Capitani passa più volentieri: «Tutti mi dicono che ho fatto bene. E sembrerà strano, ma questa cosa un po’ mi rattrista, come il fatto d’esser diventato “famoso”, di finire sulle pagine dei giornali locali solo per aver fatto una cosa buona. Se il bene fa notizia, allora vuol dire che non lo fa proprio più nessuno...». Poi, mentre pulisce il bancone, finisce il ragionamento ad alta voce: «Chissà cosa accadrebbe se altri mille baristi facessero lo stesso...».
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