martedì 24 agosto 2010
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«Nel deserto – scriveva Origene - l’aria è più pura, il cielo più limpido, Dio più familiare». Ruvido, aspro e disabitato, battuto da venti densi di sabbia, il deserto è il luogo dell’essenziale: nel silenzio, nella solitudine non conta quel che si ha ma quel che si è. Quel che si cerca. Mentre attraversano le zone più inospitali del Pianeta, la meditazione dei goumier – eterogenea tribù di viandanti – passa attraverso i piedi per raggiungere lo spirito: del movimento Goum, nato in Francia negli anni Settanta e presto diffuso anche in Italia, fanno parte migliaia di persone in tutto il mondo. Si riuniscono in gruppi di 15-20 persone e per una settimana camminano per zone desertiche in cerca di una religiosità più profonda. Non sono un movimento per giovani in cerca di avventure alternative, in fuga dalla routine, ma una scuola di libertà e di impegno vissuto.Goum è il nome del popolo dell’Atlante che ha marciato nel deserto per sfuggire alla dominazione araba. Ma goum è anche un imperativo arabo - insorgi - che deriva da kum, termine aramaico che Gesù rivolse alla ragazza malata: kum, risorgi. «In questo vocabolo – si legge sul sito dei goumier – c’è un’idea triplice, quella della tribù, della vita e della resurrezione. Indica una tribù ma una tribù che si alza, che si mette in piedi, che torna alla vita».In Italia deserti non ce n’è, itinerari che toccano l’anima sì: i raid Goum si snodano tra le Crete senesi, il monte Amiata e il monte Labbro; attraversano i grandi altipiani abruzzesi, il monte Velino e il Sirente, la Maiella; percorrono le piane sconfinate delle Murge. Come stava facendo don Francesco Cassol, ucciso per sbaglio ad Altamura, mentre dormiva sotto le stelle, nel suo sacco a pelo: nei Goum si viaggia leggeri, sono una scuola di povertà. Chi partecipa al viaggio – 22/23 chilometri a piede ogni giorno – non disquisisce sulla povertà ma la vive in prima persona: il superfluo si lascia a casa, si fa a meno dell’orologio e del cellulare, i soldi non servono, la macchina fotografica non si usa, poveri nelle cose materiali per farsi ricchi di senso. Come il povero ha fame, così il goumier mangia di gusto ma con moderazione, abbandona il lusso e si riveste della djallabia, la lunga tunica dei beduini. «La prima cosa da fare per l’avventura Goum – racconta nel sito del gruppo chi ha partecipato ai raid – è partire. Lasciare la casa, la famiglia, mamma, amicizie e comodità»: è necessario ridursi al minimo per potersi ritrovare nell’immensità del deserto. Sotto il sole di giorno e bivaccando la notte, il goumier è disposto a sopportare la fatica – 150 chilometri in sette giorni da percorrere a piedi – e ad accettare le delusioni: scegliere terre troppo accoglienti per vivere l’avventura sarebbe già un mezzo fallimento.  «Le asperità del terreno, la monotonia del paesaggio, i raggi accecanti e il silenzio – credono i goumier – portano a Dio. Nella bellezza e nel timore della solitudini dei luoghi deserti si incontra il Signore a tu per tu». E si incontra più profondamente se stessi, si dà il giusto valore agli altri: «È un onore – raccontano – servirsi l’un l’altro. Di fronte a una società anonima, permeata dall’indifferenza, dove vince la legge del più forte, le tribù Goum propongono come risposta la fraternità». Questo è il frutto che si coglie alla fine del viaggio, che non si fa mai senza sacerdote: don Francesco Cassol – e come lui i tanti sacerdoti che accompagnano i goumier – officiava la Messa, prevista tutti i giorni, e amministrava l’eucaristia. Come gli altri accompagnava e indirizzava, dirigeva senza opprimere: dopo la messa e la meditazione ognuno ha la libertà di camminare in solitudine oppure in compagnia, in silenzio ma anche cantando, pregando, recitando il rosario; o semplicemente chiacchierando di cose importanti o quotidiane, elevate o banali. La sera si sta di nuovo sotto insieme, ci si addormenta guardando le stelle.
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