giovedì 29 agosto 2013
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Per Carolina, ridotta in fin di vita da un proiettile nella te­sta, «non ci sono speranze», dicono e non dicono i medici del Cardarelli. Ma «il suo cuore e quel­lo del feto che porta in grembo continuano a battere: tutti i nostri sforzi sono finalizzati a sostenere le funzioni vitali della donna per tenere in vita il feto e salvarlo», specificano poi. Se dunque per la giovane madre si profila una «morte cerebrale» di cui le agen­zie di stampa già parlano ma che nessun bollettino ha mai dichia­rato ufficialmente, per il piccolo, giunto soltanto alla decima setti­mana di gestazione, la speranza è di riuscire a crescere nell’utero di sua madre fino al punto di poter venire alla luce. Sarà poi un’incu­batrice a portarlo a vita autono­ma. «Le notizie sulla reale condi­zione della donna non sono chia­re – sottolinea Carlo Bellieni, neo­natologo presso l’ospedale uni­versitario di Siena – e bene fanno i medici a tutelarne la privacy, ma posso dire che per il feto ciò che conta è che siano mantenute le funzioni di base della madre, an­che qualora fosse in morte cere­brale. cioè battito cardiaco e pres­sione arteriosa, almeno per altri tre mesi».
Tre mesi sono tanti...
Non so se ci si arriverà, ma certa­mente è uno sforzo che va fatto: quel feto è una persona viva e l’in­tera società gli deve lo stesso ri­spetto che chiunque di noi pre­tenderebbe se si trovasse in alto pericolo di morte. Tutti noi vor­remmo che i medici facessero di tutto per salvarci e non c’è nessun motivo per cui non lo si debba fa­re per quel bambino. Anche nel caso tristissimo che sua madre in­vece fosse già in morte cerebrale. 
Il trauma vissuto da Carolina può aver influito sul figlio in grembo?
Ogni alterazione dello stato di u­na madre si riflette sul feto, ma non possiamo sapere se e quanto. Quando le hanno sparato, Caroli­na avrà avuto sbalzi importanti di pressione e questo potrebbe aver causato sbalzi altrettanto impor­tanti nell’ossigenazione e nel nu­trimento del piccolo. Così come avrà prodotto adrenalina e altri or­moni, che provocano cambia­menti transitori del battito car­diaco fetale.
In caso di morte cerebrale della donna, crescere in una madre che non è in grado di interagire può essere influente?
Il feto risente di tutto ciò che la madre fa e prova, dunque la ca­renza in questo caso potrebbe es­serci. Tutta la situazione è delica­ta: da una parte c’è un’incognita di rischio legata a due fattori, il trau­ma già subìto e in futuro la nasci­ta certamente prematura, ma dal­l’altra c’è, come ho detto, il suo di­ritto a vivere, che gli è dovuto. In­fine però c’è anche il rispetto do­vuto a sua madre, che non è un’in­cubatrice ma una persona: i me­dici saranno molto attenti a non ledere anche la sua salute e la sua dignità. Se la vita del feto non va­le meno di quella di una adulto, non possiamo però nemmeno ca­dere nell’errore opposto.
Fino a che punto è lecito e dove­roso procedere?
Se si vede che ogni sforzo è inuti­le, bisogna fermarsi.
In quali casi ad esempio?
Se il feto desse chiarissimi segni di non crescere o addirittura segna­li di fine vita, dovremmo prende­re atto e fermarci. La medicina non è onnipotente, non le è lecita ogni cosa per il solo fatto che ha gli strumenti per farla. Comunque su questo punto sono tranquillo: nessun medico ha mai interesse all’accanimento terapeutico e nessun ospedale – specie in tem­pi di crisi – si imbarcherebbe mai in un’impresa del genere se non ci fosse una ragionevole speranza di farcela. Bene fanno, quindi, a pro­vare fino in fondo tutto ciò che possono e a tutelare la dignità di entrambe le vite.
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