giovedì 14 marzo 2013
​Fra Beppe Prioli, francescano, ha dedicato la vita all'assistenza dei reclusi. «Anche mille chilometri per un colloquio». 
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Accogliere l’uomo rinchiuso in prigione per incontrare il suo cuore e avviare, insieme, un cammino di redenzione e recupero sociale. È quello che, da cinquant’anni, fa Giuseppe Prioli, frate minore non sacerdote, che ha speso tutta la vita per «alleviare le sofferenze» dei carcerati, senza giustificare l’errore e, soprattutto, «senza dimenticare le vittime» dei loro reati. Settant’anni compiuti martedì, fra Beppe si porta addosso un soprannome (frate Lupo) che, nel tempo, è diventato una seconda pelle e che ben rappresenta il suo spirito ribelle e controcorrente. «Negli anni mi sono ammansito – dice divertito – anche se tutti i giorni chiedo a Dio la forza di continuare a gridare che l’accoglienza cambia il cuore dell’uomo. Anche di quello che si è macchiato dei delitti più terribili e feroci, che entra in carcere come un lupo arrabbiato, ma la sua rabbia è un urlo: aiutami».In mezzo secolo, fra Beppe, veneto di Bonaldo di Zimella, ha visitato oltre 250 strutture penitenziarie, incontrando centinaia di detenuti. È capace anche di viaggiare per mille chilometri per un colloquio. «Perché in cella voglio incontrare l’uomo, non il delinquente. Metto da parte la colpa per parlare al cuore, cercando in ogni uomo il volto di Cristo».La vocazione di fra Beppe Prioli è nata a vent’anni, nel 1963, dopo la lettura di un articolo di Famiglia Cristiana che raccontava la vicenda di un giovane, Livio, condannato all’ergastolo. Quel fatto lo colpì a tal punto che, quasi per reazione, maturò la decisione di farsi frate e di dedicarsi ai carcerati. «Quel ragazzo – ricorda fra Beppe – aveva la mia stessa età, vent’anni, e la sua vita era già stata del tutto decisa: fine pena mai. Non potevo pensare che per lui non c’era più niente da fare. Così, pochi mesi dopo sono andato a trovarlo a Porto Azzuro».Da allora e sono passati cinquant’anni, fra Beppe non ha più smesso, girando tutta Italia per colloqui e visite ai carcerati. Lo spirito che lo muove è quello di San Francesco, che accolse lebbrosi e briganti e ammansì il lupo di Gubbio riconciliandolo con la popolazione del piccolo paese umbro.«Oggi in Italia la lebbra non c’è più ma ci sono ancora i lebbrosi», sottolinea il battagliero frate, che si batte per far rientrare le carceri a pieno titolo nel consesso sociale. «Un tempo – ricorda – i penitenziari erano dentro le città, tra le case della gente. Oggi, invece, le nuove strutture sono costruite fuori, nelle periferie desolate e abbandonate, dove non c’è nulla se non il disagio di vivere in condizioni al limite dell’umano, in celle troppo piccole e sovraffollate. Qui sono rinchiusi i nuovi lebbrosi, uomini e donne ai quali la nostra società vuole togliere anche la visibilità. Ma il carcere ci appartiene perché, appunto, fa parte della società».Una posizione certamente minoritaria rispetto a un discorso pubblico, della politica ma anche dei media, che invece chiede sempre più spesso «pene esemplari». Chi la pensa così, secondo fra Beppe, «dovrebbe prima conoscere che cosa è il carcere», poi, probabilmente, «cambierebbe idea». Anche per diffondere questo sguardo nuovo sulla colpa e sulla pena, il francescano 45 anni fa ha fondato a Verona, dove vive nel convento San Bernardino, l’associazione “La fraternità”, che si occupa dei carcerati, delle loro famiglie ma anche delle famiglie delle vittime di chi ha commesso reati e per questo si trova dietro le sbarre. «È giusto che chi ha sbagliato paghi per ciò che ha fatto e per il dolore che ha causato – dice chiaramente il religioso –. Questo, però, non significa togliere la speranza ai detenuti, come invece fa la pena dell’ergastolo, che ferma il male ma certamente non lo cura. Un uomo che non ha speranza non è recuperabile alla società. Noi, soprattutto come cristiani, dobbiamo invece dare speranza, sapendo accogliere chi ha sbagliato. Tutti i giorni chiedo a Dio la forza di andare incontro, di saper accogliere i carcerati che vado a visitare, cercando di vivere in pienezza il Vangelo della carità».
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