giovedì 7 aprile 2016
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IDOMENI «Papa Francesco ci dia una mano, venga a trovarci anche qui a Idomeni». Boulos ha 32 anni e viene da Aleppo. È tra i pochi cristiani di rito maronita presenti nell’accampamento al confine tra Grecia e Fyrom. Sotto la sua tenda azzurra l’annuncio del prossimo viaggio del Pontefice a Lesbo è arrivato via Skype. «Può essere un aiuto anche per noi, che siamo costretti a vivere qui da settimane, senza alcuna speranza». Attesa e proteste si moltiplicano nel campo di Idomeni. E in quelli più piccoli, sorti lungo l’autostrada che congiunge Salonicco al confine di Evzonoi con la Macedonia. Dopo il primo tentativo di bloccarla, messo in atto lunedì scorso dai migranti accampati nell’area di servizio del vicino Hotel Hara, ieri è stata la volta di quelli dell’Eko camp, che si trova a un paio di chilometri, in direzione di Polikastro. «Stiamo cercando di farci sentire – dice ancora Boulos, che a Idomeni è arrivato a metà febbraio, assieme a sua moglie Sara e alle sue tre figlie –. Vogliamo rompere il silenzio che ci sta avvolgendo. Vogliamo chiarezza sul nostro destino e su quello di chi sta arrivando in questi giorni in Grecia». L’accordo tra Unione europea e Turchia è oramai operativo. Proseguono i respingimenti da Lesbo e Chios verso le coste turche. Circa duecento in un paio di giorni. Tra la polvere e le tende di Idomeni non si parla d’altro. «Dicono che non riporteranno indietro i siriani, a patto che si faccia domanda di asilo in Grecia», spiega Mahmoud Ahmad, curdo di Qamishli, nel nord-est della Siria, percorrendo con la mente l’iter successivo: il trasferimento in un centro governativo, come quelli vicini di Nikavala e Mastiraki-Cherso; l’attesa dello status di rifugiato, per poter proseguire il viaggio. «Nessuno vuole rimanere qui – dice ancora Mahmoud – io ho metà della mia famiglia che mi aspetta a Francoforte, in Germania». I percorsi alternativi passano dai porti greci di Patrasso e Igoumenitsa, mete storiche dei cosiddetti migranti economici. «Tra ieri e oggi molti miei amici algerini hanno abbandonato il campo per tornare ad Atene – osserva Mohamed Lamine, mentre a sua volta cerca di far colletta, per pagarsi il biglietto – ormai aspettare qui, per noi, non ha più senso». «C’è chi pensa di attraversare l’Albania, per aggirare l’ostacolo macedone – rivela Leonidas, giovane volontario di Medecins sans Frontieres, che dalla sua Polikastro, si è oramai trasferito tra gli acquitrini di Idomeni –. La situazione igienico-sanitaria è una bomba a orologeria. Ci sono due o tremila migranti, per metà bambini, che si sono accampati negli ovili di un mattatoio. La struttura è privata e noi non abbiamo il permesso di accedervi». Una fila di bagni chimici all’esterno del perimetro dell’area, cerca di limitare i danni. Ma non è sufficiente. Fatima, dottoressa yazida di Kocho, fa capolino dalla sua tenda, scuotendo il capo: «Qui i bambini giocano tra i liquami e il fumo della plastica bruciata – dice – ci stiamo ammalando tutti. Non possiamo andare avanti così». «Con l’arrivo della primavera la situazione rischia di precipitare – dice Katarina Margou, volontaria della Croce Rossa ellenica – il rischio di epidemie di tifo e di epatite è altissimo. Crediamo che la gravità della situazione non sia stata compresa fino in fondo». © RIPRODUZIONE RISERVATA IDOMENI La protesta ( Reuters)
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