lunedì 10 febbraio 2014
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Suo padre Giorgio portato via dai comunisti jugoslavi di Tito nel 1945 e sparito nel nulla, forse gettato in foiba, forse nel campo di sterminio di Borovnica. Una zia e una nonna deportate dai nazisti ad Auschwitz: di loro più nessuna traccia, cenere al vento. Uno zio ucciso nelle Fosse di Katyn, dove nel 1940 i sovietici massacrarono con un colpo alla nuca 10mila ufficiali polacchi (per decenni la strage fu ingiustamente attribuita ai tedeschi). E nella generazione successiva due cugini adolescenti condannati ai lavori forzati in un gulag sul Don... «Sono tanti i Giorni del Ricordo che si celebrano in casa nostra», riassume Giorgia Rossaro Luzzatto Guerrini, 91 anni, goriziana, ex insegnante di Lettere, la memoria che non vacilla: «Nella nostra famiglia si intrecciano i destini degli ebrei e dei giuliano-dalmati, si sono dati appuntamento tutti i regimi che hanno insanguinato il ’900 e portiamo il lutto del nazismo, del comunismo sovietico, delle stragi titine». Ha pianto il 23 ottobre scorso ricordando la deportazione degli ebrei dalla sinagoga di Gorizia nel 1943, lo ha fatto il 27 gennaio per la Giornata della Memoria della Shoah, continuerà a farlo domani, nel Giorno del Ricordo per le Foibe e l’esodo dei 350mila italiani sfuggiti al genocidio di Tito, «ma se l’olocausto ci è stato riconosciuto da sempre, la tragedia delle Foibe ci è stata negata - precisa -, siamo stati derisi, chiamati fascisti, non creduti. Non ho mai visto nessuno venire a Gorizia dai palazzi romani per il nostro 3 maggio!».Nel maggio del 1945 furono giorni bui per le nostre regioni del nord-est adriatico. La guerra era finita, l’Italia tutta festeggiava la fine del nazifascismo abbracciando le truppe angloamericane. A Gorizia, Trieste, Pola, Fiume, Zara invece la «liberazione» era portata dalle truppe di Tito, senza abbracci ma al grido di «Trst je nas», Trieste è nostra. Non una liberazione ma una nuova invasione.«Prima, l’8 settembre del 1943, ci avevano occupato i nazisti - ricorda Giorgia Rossaro - e una nostra impiegata slovena denunciò i miei suoceri in quanto ebrei, ma loro riuscirono a scappare in Veneto, invece la nonna ingenuamente decise di restare e finì ad Auschwitz a 82 anni». La stessa ingenuità innocente che due anni dopo ucciderà suo padre, medico e uomo liberale, però per mano comunista: «Era l’alba del 3 maggio 1945 - ricorda -, alla porta bussò un soldato titino sui 20 anni. Disse che mio padre doveva presentarsi al comando jugoslavo per "informazioni". Gli ho fatto il tè e ho svegliato papà. Quel militare mi chiese se ero spaventata ma non capivo la domanda: ormai c’era la pace... Mio padre invece capiva anche troppo: solo poi ci siamo accorti che prima di seguirlo aveva lasciato tutto il denaro contante sotto la bilancia in cucina». Quella stessa notte nelle case di Gorizia furono prelevati 600 capifamiglia, medici, maestri, commercianti, «la cosiddetta intellighenzia, in perfetto stile sovietico». L’ultima volta che Giorgia e la sua sorellina videro il padre fu il 5 maggio del ’45, dalla finestra del carcere di Gorizia, con un triste sorriso e la mano che salutava. «In seguito abbiamo saputo che lo hanno portato a Lubjana la notte stessa, e lì il grande silenzio, eterno».Dal quale solo ora qualcosa è trapelato: carte terribili uscite dagli archivi di Tito (e presto dimenticate), con migliaia di nomi, di processi farsa, di condanne senza colpa. «Nel 2005 la storica slovena Nataša Nemec ha ritrovato e diffuso la lista dei 1.048 deportati da Gorizia e il destino atroce subìto da carabinieri e militari di tutta Italia, spariti nel nulla in tempo di pace. È stata coraggiosa... tre ore dopo era licenziata». Tra gli altri, anche il nome di suo padre, "Giorgio Rossaro, interrogato". Quale fu la condanna non si sa ed è questo che ancora oggi la tormenta, «perché un conto è la morte, altro è la scomparsa senza sapere dov’è il suo povero corpo e senza una croce su cui pregare. Noi italiani ci scaldiamo tanto per i desaparecidos argentini e non siamo capaci di fare nulla per i nostri». Lubjana dista «un’ora di autostrada, perché nessuno dei nostri politici ha mai chiesto la verità?». Oggi come allora c’è ancora chi accusa i 350mila italiani fuggiti dalle Foibe di Tito di essere "fascisti", «ma perché? Era l’Italia ad essere fascista, mica noi, anzi, qui rispetto a Roma o Milano il regime non si sentiva proprio, con la minoranza slovena vivevamo in pace e le pagliacciate tipo i saggi ginnici non si vedevano». Suo padre, poi, dall’8 settembre aveva curato tanti partigiani. «I nomi dei criminali jugoslavi sono noti, perché non si sono processati anche Anton Zupan o Giuseppe Kuk come Priebke? La Germania ci ha risarciti per i nostri deportati e mio suocero quei soldi li ha mandati in Israele per gli orfani dei lager, Slovenia e Croazia ci ridiano almeno le salme. Scappare dai nazisti non faceva di noi dei comunisti, e allora perché scappare da Tito farebbe di noi dei fascisti?». Quando nelle scuole la chiamano a testimoniare la Shoah, ne approfitta per raccontare anche l’altra parte della verità. Lo deve a sua madre «che per 13 anni restò seduta davanti alla porta da cui papà era uscito, lo ha sempre aspettato» e lo deve a noi, defraudati per 70 anni della nostra Storia.
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