mercoledì 4 marzo 2020
Gli abitanti del territorio tra Lucera e San Severo si lamentavanirsi per la terribile puzza che veniva dai campi. Sversati almeno 240mila tonnellate di rifiuti di ogni tipo su 353 ettari
Un'immagine da un video girato durante le indagini nel Foggiano dalla Guardia di finanza

Un'immagine da un video girato durante le indagini nel Foggiano dalla Guardia di finanza - Ansa

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Avevano proprio ragione gli abitanti del territorio tra Lucera e San Severo a lamentarsi per la terribile puzza che veniva dai campi. Lì dal 2013 sono stati sversati almeno 240mila tonnellate di rifiuti, ma probabilmente molti di più, ufficialmente materiale trattato, compost, in realtà senza alcun trattamento.

Rifiuti organici da raccolta differenziata, fanghi di depurazione, rifiuti dell'industria agroalimentare e dell'attività dei mercati, provenienti da comuni e privati del Foggiano, in particolare dai Comuni di Chieuti, Serra Capriola, Lucera e San Severo, ma anche della Campania e del Molise. Un affare scopero dall' "operazione Bios" condotta dal Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria (PEF) di Bari della Guardia di Finanza e coordinata dai pm Renato Nitti, Marco D'Agostino e Marco Gambardella della Dda barese.

Sono 16 le persone destinatarie di misure cautelari, 7 agli arresti domiciliari e 9 con obbligo di dimora, e beni sequestrati per 26 milioni di euro riconducibili alla famiglia Montagano, monopolista nel Foggiano per la gestione della frazione organica dei rifiuti. Imprenditori, dunque, ma, spiega la Procura, "queste aziende che non rispettavano le regole, avevano quasi il monopolio del territorio a scapito di quelle oneste".

Con un milionario profitto illecito che derivava dai compensi percepiti per la ricezione di rifiuti destinati al trattamento, nonchè dal risparmio di spesa derivante dalla mancata attivazione delle corrette procedure di gestione dei rifiuti prescritte dalla legge.

Davvero un grosso affare. Lo dimostrano i sequestri. Nella giornata di martedì, 3 marzo, sono stati infatti posti i sigilli a 255 terreni agricoli per una superficie complessiva di 353 ettari, 48 immobili, 4 complessi aziendali, quote societarie, conti correnti, depositi finanziari e automezzi.

Come funzionava il sistema illegale di smaltimento? I rifiuti, qualificati come compost, cioè fertilizzante organico stabilizzato biologicamente, in realtà non sarebbero stati trattati secondo le norme ma smaltiti illecitamente in terreni agricoli del territorio. Senza neanche alcuna preventiva selezione, come dimostra il ritrovamento di sacchetti di plastica non biodegradabile e altri corpi estranei.

Questo, sottolineano ancora i magistrati, avrebbe avuto "evidenti ricadute sulle emissioni odorigene, che hanno suscitato particolare allarme nella popolazione residente, costretta a respirare aria infestata dalle esalazioni dei rifiuti sversati sul terreno".

Una tecnica ampiamente utilizzata in Campania fin dagli anni '90 e ora utilizzata anche nel Foggiano che si conferma sempre più terra di conquista dell'economia criminale ambientale. "Nel Foggiano non ci sono solo bombe, non ci sono solo le mafie ma anche un'illegalità diffusa, spesso collegata al mondo economico, per massimizzare i profitti - sottolinea il colonnello Pierluca Cassano, comandante del Nucleo PEF -. Ma anche questa inchiesta dimostra il nostro forte impegno per contrastare queste forme di criminalità".

Inchiesta non facile. "Per raggiungere questo risultato ci sono voluti anni di indagini - ha spiegato il procuratore di Bari, Giuseppe Volpe - svolte con i sistemi tradizionali ma anche tramite intercettazioni, acquisizioni documentali, accertamenti bancari, ascolto di persone informate sui fatti".

Lo smaltimento del falso compost avveniva mediante la simulata vendita attraverso la produzione di falsi documenti di trasporto e altra documentazione contabile attestante l’apparente commercializzazione dei rifiuti asseritamente trattati, con il conseguente abbandono degli stessi su terreni agricoli, talvolta riconducibili agli stessi indagati, che li avevano appositamente comprati a basso costo.

Il meccansimo fraudolento smascherato dagli specialisti del Gruppo Tutela Spesa Pubblica del Nucleo PEF di Bari prevedeva anche il fittizio recapito del falso compost ad imprese agricole cessate ovvero estranee alle indagini, la simulata permuta con prodotti di derivazione agricola come il mosto d’uva da parte di aziende vinicole, la cessione ad aziende agricole del tutto sprovviste di suoli destinati alla coltivazione o idonei ad accogliere concimi o fertilizzanti, ovvero lo scarico del prodotto illecito (come da indicazioni sui documenti di trasporto alterati) in località inesistenti.

I finanzieri hanno inoltre accertato che in molti casi le aziende di destinazione non esistevano o che avevano sede presso la stessa società produttrice. "Ne consegue - come ha spiegato il pm Nitti - che in molti casi non si sa dove sia finito il compost illegale". "Spesso abbiamo riscontrato che si muovevano le carte ma non il prodotto", ha aggiunto il colonnello Cassano. Per esempio, è stato scoperto che 154mila tonnellate, in una circostanza, furono vendute dalla società madre a un'altra nata come sua costola. C'è quindi ancora molto da scoprire.

L'indagine prosegue sia per scoprire dove siano finiti altri rifiuti, sia per accertare i danni provocati all'ambiente. Per evitarne di ulteriori, all'impianto finito sotto sequestro, non è stato imposto il blocco della produzione perché all'interno sono ancora presenti migliaia di tonnellate di rifiuti che non possono essere abbandonati. Ora sarà gestito da un amministratore giudiziario nominato dal Tribunale per consentire il prosieguo dell’attività di conferimento e trattamento dei rifiuti da parte degli enti locali e di privati e salvaguardare i posti di lavoro. Ovviamente nel rispetto delle norme e, sottolinea ancora la Procura, ristabilendo "le regole della concorrenza".




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