martedì 5 marzo 2019
Una serata tra i genitori alle prese con web e social. «A 7 anni mi chiede Instagram, che cosa faccio?»
Viaggio tra generazioni “divise” da schermi e app. Gli adulti, impauriti, cercano ricette condivise per tornare ad educare. I ragazzi, spesso soli, cercano in Rete le risposte sulla vita Un momento dell’incontro tra genitori milanesi per il ciclo “Atelier digitali”. Nel corso delle serate si affrontano i nodi del rapporto tra adolescenti e social

Viaggio tra generazioni “divise” da schermi e app. Gli adulti, impauriti, cercano ricette condivise per tornare ad educare. I ragazzi, spesso soli, cercano in Rete le risposte sulla vita Un momento dell’incontro tra genitori milanesi per il ciclo “Atelier digitali”. Nel corso delle serate si affrontano i nodi del rapporto tra adolescenti e social

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«A 7 anni mi chiede Instagram e io non so cosa fare... ». La mamma seduta nell’angolo, tutta rossa in viso, tira un sospiro e butta fuori la sua scomodissima verità. Che non sconvolge nessuno degli altri, o quasi. «Io la rincorro, lei è già avanti. So benissimo che in poco tempo ne saprà più di me e allora cosa farò?». Ore 19, martedì sera, aula al primo piano dell’Istituto Bertarelli-Ferraris di Corso di Porta Romana, a Milano. È qui che si celebra un nuovo rito dell’era digitale: il gruppo di mutuo-aiuto fra genitori. Sulla carta è stato pensato come un luogo di incontro e di dibattito sul modello dei barcamp, le “non conferenze” nate negli Stati Uniti come momenti di confronto aperti a tutti e i cui contenuti sono proposti dai partecipanti. A tema, i vari aspetti della tecnologia, in questo caso nella vita degli adolescenti e dei bambini.

Ma qui è chiaro subito a tutti che in gioco c’è altro: ascoltarsi, confessarsi, confortarsi. Trovare una strada comune per affrontare la sfida epocale che sono lo smartphone, il tablet, il videogioco, il social, la Rete. Cose terribilmente uguali, quando risucchiano la vita dei figli. E di questa ferita – della vita dei figli che i padri e le madri “rincorrono” – non c’è altro posto in cui parlare. Seduti a semicerchio davanti alla lavagna multimediale siamo una trentina di adulti. Un po’ guardinghi, all’inizio. A rompere il ghiaccio pensa papà Francesco. Che di cognome fa Cajani, ed è sostituto procuratore al Tribunale di Milano con specializzazione in reati informatici, ma che qui si presenta solo come papà “preoccupato” di due bimbi piccoli: «Siamo alla seconda serata di questo ciclo di incontri. Per chi fosse in difficoltà, vi ricordiamo che è previsto anche l’aperitivo... ». Qualche sorriso. Francesco racconta di come l’idea degli “Atelier digitali” (www.atelierdigitali.it) sia nata dai dibattiti infiniti con Massimiliano (Andreoletti, pedagogista dell’Università Cattolica) e Anna (Ragosta, esperta in processi formativi multimediali), marito e moglie, anche loro mamma e papà: «Ci trovavamo al bar. E non la smettevamo più di discutere, a volte anche di scontrarci – raccontano –. Un giorno ci siamo detti: perché non coinvolgere anche gli altri?».

La parola passa all’ospite della serata, la docente di psicologia dell’Università Cattolica Daniela Villani, chiamata a tratteggiare un breve cappello introduttivo sul tema dell’identità digitale. Ci si chiede, in sostanza, chi siano i nostri figli in Rete. Oltre a che cosa facciano. Slide di maniera, qualche spolverata di informazioni generali sui meccanismi di funzionamento dei social e sulla formazione dell’identità. Il primo colpo di scena arriva quando la quasi totalità dei presenti ammette di avere bambini che hanno iniziato da poco la scuola primaria: 7, massimo 8 anni.

Sembra inevitabile, visto che in Italia 8 bimbi su 10 tra i 3 e i 5 anni usano già il cellulare dei genitori (e spesso perché sono i genitori a metterglielo in mano). «Sicuramente non avete ancora il problema di un’iperconnessione però...» accenna Villani, cercando il conforto della piccola platea.

Che in parte annuisce, all’incontro è venuta «per capire quello che succederà, inevitabilmente, tra poco». In parte no: c’è chi “combatte” già con Fortnite e Minecraft (i videogiochi del momento), chi chiede «quanto tempo devo lasciarlo davanti al pc», chi non capisce esattamente «perché a scuola accetta regole sul tablet di classe e a casa invece le rifiuta». Sul tablet in questione, nella scuola in questione, vengono anche caricati i compiti dei bimbi e ai compiti i piccoli possono mettere dei primi, innocenti like. «Impossibile» esclama un papà.

Eppure i like, si conclude in fretta, sono la cifra dell’uso che anche i genitori fanno dei social e della Rete, «prima o poi quella logica dovranno affrontarla anche loro...». E allora? Allora si ricomincia. «Serve domandarsi – provoca la psicologa – proprio questo: che uso fate voi, dei social e più in generale della tecnologia? Che uso vedono, i vostri figli, del telefonino in casa?». Di tecnologia si è già finito di parlare e il tema scottante – vecchio e prezioso come il cucù – diventa l’educazione. «Forse occorre lasciare da parte lo strumento e tornare a parlare dei contenuti».

Quelli che i genitori (chi, se non loro) dovrebbero continuare a mettere nella vita dei figli. Qualcuno fa l’esempio della passione per la montagna, qualcuno della condivisione di momenti all’aperto, delle vacanze, degli hobby. «Non possiamo rassegnarci a quella cosa lì» esclama un’altra mamma indicando lo schermo che ritrae un adolescente al telefono. «Già, e allora cosa c’è?» incalza Villani. «Il compito dei genitori» sussurra qualcuno. Quello di uscire dalla logica maledetta dei selfie e dei like in cui tutto è performance, in cui tutti sorridono e stanno bene (il più delle volte facendo finta) «per tornare al “processo” – chiosa Villani –. A quel che si fa davvero, a quel che si è davvero». Grandi e piccoli. Ma, forse, soprattutto i grandi. Se possa bastare, come ricetta, è tutto da decifrare. I genitori però sorridono, e ancora parlano fuori dall’aula, si confrontano, hanno voglia di raccontare. Al prossimo appuntamento, tra un mese, a parlare di educazione probabilmente saranno il doppio.

Un pomeriggio a casa di Martina: sai cos'è un vlogger?

A 12 anni il mondo di Martina, Giorgia e Sabrina è tutto nella carrellata di video caricati sul telefonino. «Questi sono Valerio e Sespo. I Valespo». Un pomeriggio con loro – amiche inseparabili di un quartiere popolare alla periferia Est di Milano –, per capire chi sono e cosa vogliono gli adolescenti che i genitori hanno paura di non saper più educare, inizia necessariamente da qui. Valerio ed Edoardo (Esposito di cognome, da cui Sespo) sono gli ultimi baby-divi nati su YouTube: uno 18, l’altro 19 anni, felpe con cappuccio over-size ed espressione da gioventù bruciata, fanno la follia di migliaia di ragazzine e ragazzini postando quotidianamente strisce di vita in Rete. Non sono ballerini, né cantanti, non hanno missioni o obiettivi particolari. «Sono semplicemente vlogger» ripetono le ragazze. Cosa significa? «Che fanno video – decide di essere più precisa Sabrina –. Raccontano barzellette, o si fanno degli scherzi, oppure si lanciano delle challenge». Il termine – un altro incomprensibile dai 30 anni in su – indica lo “sfidarsi” in piccole o grandi imprese: «Fanno posizioni di yoga strane – continua Giorgia, mostrando un altro video –. Oppure uno mette in pausa l’altro mentre si sta versando dell’acqua». Ridono. Ci sono anche sfide più pericolose? Vien fatta tornare, alla memoria delle tre amichette, la storia di quel ragazzo – sempre di Milano – che si è impiccato nella sua stanza inseguendo una challenge impossibile: «Dici di Igor... Andava a scuola con una mia amica, lo conoscevo di vista – spiega corrucciata Sabrina –. Ma di queste cose non voglio parlare, mi angosciano. I Valespo una volta si sono tuffati dal tetto di una casa nella piscina di sotto comunque...».

Difficilissimo cambiare argomento perché oltre ai Valespo ci sono anche le fidanzate da seguire, con le loro strisce quotidiane dedicate a make-up e capelli. Un modo per attirare di nuovo la loro attenzione è parlare di telefonino, visto che dall’inizio della conversazione non lo abbiamo lasciato un attimo da parte: quanto lo usate? «Tantissimo » rispondono in coro. Poi inizia l’elenco dei “blocchi”, attivati dai genitori per evitare che tantissimo – in seconda media – diventi sempre. Martina si “ferma” dalle 15.10 alle 17.30, «per studiare ovviamente. Posso ricevere chiamate e farle, ma le altre funzioni sono come spente». Giorgia invece “taglia” con chat e Internet dalle 14.30 alle 16.20. Sabrina no, i suoi a volte le chiedono di consegnare semplicemente il cellulare, a volte nemmeno: «Se studio, e vado bene, si fidano di me». Oltre a WhatsApp e Tik Tok (un social che spopola tra le teenager in cui si condividono coreografie al ritmo dei successi musicali del momento), lei è anche l’unica ad avere un profilo Instagram: «Seguo solo gli altri, non pubblico. I miei dicono che sono troppo piccola per farlo». «Io per il telefono litigo spesso con mia mamma» racconta Giorgia. «Odio che guardi i miei ultimi accessi, o le chat, mi sento controllata». «Per il discorso delle foto, del fatto che mi dicano di non pubblicarle, io invece gli do ragione,», ribatte Martina. Che in quinta elementare – al suo primo telefonino e profilo WhatsApp – è stata vittima di un episodio di cyberbullismo: «Hanno giocato con una mia foto. Mi ha fatto male. Poi ne abbiamo parlato in classe, la cosa è stata affrontata dai grandi». Non vi fa paura, quello che può succedere in Rete? «No, noi sappiamo da cosa bisogna stare alla larga» rispondono sicure le amiche. Che quando Martina è finita nel mirino dei bulli, quella volta, amiche sono state davvero: «L’abbiamo protetta noi».

E la scuola? «La scuola è pesante, i prof urlano – dice subito Sabrina –, se non urlano non si fanno ascoltare». Tutte e tre la vorrebbero «bella», invece. Senza sapere esattamente come. «Io l’anno scorso avevo un insegnante di italiano bravo – riprende Martina –. Sapeva spiegare e farsi capire». «Prendi i Valespo però – si intromette Sabrina – loro invece ti trasmettono qualcosa». Cosa? «Io per esempio, se sono sola, se mi sento triste, ho loro che mi fanno compagnia. Erano come me, nessuno li conosceva. E invece sono diventati famosi». Si inizia a parlare di sogni. «Anche io voglio diventare famosa – dice Martina –. Voglio avere tutte quelle persone che mi seguono, che mi sostengono. Qualcuno che crede davvero in me». Che in famiglia lo facciano, poco importa. Il riferimento è a like e followers, ai consensi sotto quei video, alla comunità social connessa 24 ore su 24 da cui non puoi staccarti, pena l’isolamento. Una sensazione che Martina e le sue amiche vivono già, a 12 anni. Ma quello che accade nel mondo? Le cose oltre il telefonino, che ne pensate? «Se mi interessa una cosa, io la cerco qui» dice Giorgia indicando lo smartphone. Tatuaggi, frasi tradotte in inglese, pizza challenge, a volte qualche video di Iris Ferrari (giovanissima star di Tik Tok, anche lei sull’onda del successo come i Valespo), a volte qualche canzone di Sfera Ebbasta («ma solo quelle che passano da Tik Tok, i testi mica lo capisco sempre quello che vogliono dire...»).

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