sabato 7 novembre 2015
Il direttore della Caritas diocesana parla della «malattia Capitale». Che può guarire. GUARDA IL VIDEO
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«Vorrei essere un direttore della Caritas che venisse aiutato anche a dare prospettive, lavoro, non solamente minestre. Sebbene ci mancherebbe non dessi mine-stre! »: monsignor Enrico Feroci dirige la Caritas di Roma e l’altro ieri sera era con il cardinale vicario Agostino Vallini a presentare la Lettera alla Città. Inevitabile, parlando della Capitale e di come "don Enrico" «vorrebbe essere aiutato a dare anche prospettive», affrontare subito la questione politica. «Paolo VI diceva che è la prima grande carità», ricorda Feroci: «Noi abbiamo grande responsabilità. Non abbiamo formato una classe politica che volesse veramente il bene comune. E non abbiamo formato i cittadini che scelgono le persone che devono dirigere questa città. Mi chiedo, dov’eravamo? ». La risposta in parte la dà il direttore stesso della Caritas: «Negli ultimi anni ci siamo allontanati dal mondo politico perché ne abbiamo avuto paura e per fare attenzione a distinguercene », col risultato che «è finita verso i faccendieri e i maneggioni e a questi ultimi l’abbiamo lasciata in mano».  Altra nota triste di "malattia Capitale": oggi a Roma «la povertà più grossa è l’individualismo e l’utilitarismo », annota don Enrico. Una sola strada: «Dobbiamo spogliarci del nostro io e mettere gli altri al centro. In fondo questo è la parabola del buon samaritano, parabola "laica", che ci dice come devi decidere: pensi solamente a te stesso o pensi all’altro e in questo modo diventi adulto, come ci chiede Gesù». Pensa innanzi tutto ai più giovani, monsignor Feroci: «Quando li incontro quando parlo con loro, mi dicono di non vedere futuro, sembrano essere senza speranza, sono quasi disperanti. Si considerano persone 'tagliate fuori'». E come si rende loro la speranza? «Vede, io sono triste facendo il direttore della Caritas romana, perché siamo costretti ad avere una funzione di supplenza, a correre dietro bisogni che sono di altri tempi. Lo spiegavo prima: se qualcuno ha fame, gli dò da mangiare e guai non lo facessi. Ma come comunità cristiana e anche come comunità sociale non ci stiamo impegnando a entrare dentro i problemi veramente di oggi. È tempo di farlo». 

Quel che spaventa di più don Enrico sono le divisioni, «che ci uccidono», ripete: «La parola "divisione" deriva da " diàballo", cioè il diavolo. Che divide». Continua però a farla franca questa «nostra incapacità di metterci intorno un tavolo e dirci 'io ho questo, io ho quest’altro, mettiamo insieme tutto perché c’è un obiettivo, una necessità'». Sembra diffuso il gioco per se stessi e a scaricare sugli altri: «Ma, diceva Ghandi – e sottolinea il direttore della Craitas diocesana di Roma –, la deresponsabilizzazione è la più grossa violenza che esista...».

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