venerdì 28 aprile 2017
Il direttore Sacani: il problema non sono i salvataggi ma le partenze forzate
«Fermare la logica della paura»
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Sono le stesse organizzazioni umanitarie, che operano da anni in tutto il mondo, vicino a chi soffre e ai più sfortunati, che non ci stanno ad essere sotto i fari accesi dell’accusa. «È molto scorretto, se ci sono Ong che fanno cose illecite è giusto che la giustizia faccia il suo corso ma sparare nel mucchio serve solo a creare un atteggiamento negativo nei confronti di tutte le Ong, col rischio poi di aumentare i morti nel Mediterraneo». Ne è convinto Attilio Ascani, direttore generale di Focsiv (Federazione degli Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario) di cui fanno parte 78 organizzazioni che operano in oltre 80 paesi del mondo.

Perché si attaccano le organizzazioni umanitarie?
Il vero problema, al di là di quello che dice il procuratore di Catania – non ho elementi per giudicare – è che le persone che arrivano sulle coste del Mediterraneo non hanno altra scelta se non quella di affrontare il mare. E quindi la diatriba sui salvataggi in mare è assolutamente fuori luogo. Il ragionamento è a monte: come fare in modo, cioè, che quella gente non arrivi sulla spiaggia del Mediterraneo. La partenza non è un viaggio di nozze, la gente parte dal proprio Paese perché è disperata e nessuno lascia a cuor leggero la propria casa.

Però in questo momento sono sotto accusa i salvataggi...
Perché non si sa che pesci pigliare rispetto al problema delle migrazioni. Non c’è cioè una risposta seria e coordinata e si fanno solo piccoli calcoli politici. Attaccare le Ong, quello che c’è di buono nella nostra società è cinico e pericoloso. Qualcuno ha detto che gli scafisti si avvantaggiano del diritto internazionale: è giusto, ma dobbiamo evitare che le persone finiscano in mare con gli scafisti. E, soprattutto, non lasciarle morire in mare.

Che cosa si sente di dire a nome di tutte le sue Ong?
A nome delle 78 Ong che rappresento mi sento di ribadire l’importante lavoro che si sta svolgendo, ad esempio, in Senegal, in Mali, in Gambia, in tutti quei Paesi di partenza e transito dei migranti. Lavoriamo per creare prospettive, per far loro scegliere di rimanere in condizioni meno disumane. È lì in quei Paesi che i governi devono intervenire. Chi accusa le Ong non ha mai partecipato al funerale di un bambino, figlio di profughi. Non ha mai visto la disperazione di un padre partito da Erbil – il più grande campo profughi in Iraq con oltre 32mila persone senza patria – e ritornato indietro solo con una bara.

Come si esce da queste accuse incrociate?
Come tutte le bolle, anche la retorica politica alla fine si sgonfierà e si sposterà su altro. Però il danno rimarrà. Rimarrà la paura e il disamore rispetto alle Ong e ai canali umanitari. Così come resterà il problema delle migrazioni che va invece affrontato con la serietà di un tema a lungo periodo. Bisogna avere il coraggio di creare più canali e migrazioni circolari: vengono, fanno esperienza ma poi possono anche tornare al loro Paese. Ma prima dobbiamo toglierci la paura della migrazione.

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