Misericordare. Un verbo che non esiste, in italiano. Ma che in via Rutilia 28, periferia sud di Milano, è linguaggio comune e quotidiano: «Sant’Agostino parlava di miseris cor dare, dare il cuore ai sofferenti», sorride chi ci spalanca il portone. E così spiega perché la grande casa in cui abita si chiama 'Mater Misericordiae', anche se non è un monastero e nemmeno un istituto: l’aspetto è quello delle antiche 'corti' lombarde, con un grande cortile interno coperto d’erba sul quale si affacciano i ballatoi e gli appartamenti, ma tutto profuma ancora di nuovo. «È stata costruita un anno fa. Ci viviamo in cinque famiglie, con la stessa motivazione, l’accoglienza – dice Stefania Croci, madre di quattro figli naturali, ma anche di altre due bambine accolte in casa – . Siamo arrivati alla spicciolata, aderendo con tempi e modi diversi al progetto, e così abbiamo creato questo 'condominio' in cui l’affido dei minori è il collante che ci tiene insieme e il senso del nostro fare comunità». Nella calda estate milanese il cortile di via Rutilia risuona di strilli e risate, mentre un gran numero di bambini gioca sul prato e si spruzza l’acqua dalla piscina gonfiabile. Sui ballatoi basta che si affacci una mamma per tutti, a dare un’occhiata, e già questo dà la misura di cosa significhi «avere sempre una porta cui bussare e sapere che troverò una voce amica», come spiega Maria Capetti, 46 anni, altra inquilina dello strano condominio, madre di quattro figli ma anche degli altri due che attualmente ha in affido. «Noi infatti non siamo solo qui per accogliere, ma anche per essere accolti», sorride. E capisci che la chiave è proprio questa: qui nessuno si pone dalla parte dei 'buoni', qui chi dà riceve, «perché di accoglienza si vive tutti, indistintamente». Solo un anno fa le loro esistenze erano molto diverse. Stefania e Paolo Croci, 38 e 40 anni, vivevano tranquilli a Lambrate e avevano appena rinnovato la loro casa, dove era da poco venuta al mondo la loro quarta piccolina, mentre Maria e Amedeo Capetti, 46 e 47, medici, stavano in zona Città Studi con i quattro figli. Sparsi per la città erano pure gli altri inquilini, Antonella e Dino Chiello con le loro due bambine, Cecilia e Giulio Senes con i tre maschietti, Romana e Pietro Dottori e i loro tre figli. A farli incontrare, la corte di via Rutilia e l’'Associazione Fraternità', una realtà sorta 25 anni or sono vicino a Crema dall’intuizione di don Mauro Inzoli, e oggi arrivata ad avere oltre cinquecento iscritti e seicento minori accolti. È così che in via Rutilia capitano cose dell’'altro' mondo, ad esempio che per cinque coppie di genitori ci siano più di trenta figli tra 'veri' e in affido, e al colpo d’occhio ogni differenza sfugga. Qui tutto è extra-large: grandi i frigoriferi, a schiera i lettini, spaziose le stanze, enormi i tavoli, perché ai pasti le bocche da nutrire sono tante, e ancora più sono le chiacchiere che rendono allegra l’atmosfera. Lungo i ballatoi che danno sul cortile bambole, pattini e tricicli 'parlano' di bambini che sono al doposcuola o riposano all’ombra, lontani dalla calura. Alcuni poi hanno qualche disabilità, per cui sono a fare riabilitazione, o dallo psicologo, o dal logopedista a seconda dei bisogni, ma entro sera saranno tutti qua a riempire le stanze delle loro voci. Così come i cinque papà, gli unici che di giorno vanno a lavorare: «Anche questo ci accomuna – testimonia Maria, pediatra –, per scelta noi madri lasciamo il lavoro, altrimenti non potremmo occuparci dei figli». Prima di approdare in via Rutilia, la sua famiglia aveva già avviato una storia di affido con un bellissimo bimbo disabile, («tu sei diversamente abile?», gli ha chiesto senza malizia un compagno d’asilo, «no, io sono capato», handicappato, gli ha risposto lui, e in casa ne ridono ancora...), ma in solitudine non era la stessa cosa. Poi, grazie a don Mauro e all’Associazione Fraternità, «abbiamo scoperto che tutto questo poteva essere vissuto in comunione e quindi moltiplicato». In questo caseggiato, insomma, il segno non è più, il segno è per: non si addiziona, si moltiplica. È quello che intendeva don Inzoli quando, a Stefania e Paolo che sentivano nascere in sé il desiderio vago di vivere in comunità con altre coppie, oppose una provocazione: «Non basta mettersi insieme. La vita comunitaria se non ha uno scopo comune non regge ». E quello scopo ha assunto i volti dei piccoli Antonio, Clarita, Luciana, Giuseppe, Mauro, Alice, ma anche gli occhi di Alessandra, ragazza madre di tre bimbi, rimasta senza casa dopo uno sfratto ed accolta anche lei come una figlia. O gli occhi della piccola Stella, arrivata a Natale e ripartita ad aprile verso una nuova vita: abbandonata alla nascita in ospedale, a 'Mater Misericordiae' è diventata la figlia di tutti. Poi il distacco, come accade per ogni affido. «Ogni volta è uno strappo doloroso, ma noi sappiamo che è per il loro bene - mette già in conto Paolo Croci, impiegato, nel frattempo tornato dal lavoro - e lo accettiamo fin dall’inizio. Prima ero molto restio a seguire la scelta di mia moglie, poi ho capito che nella presenza dell’altro avrei trovato i segni del Mistero. L’importante è lasciar fare a Cristo, affidarsi senza mettere limiti e solo alla fine contemplare quanto avviene qui tutti i giorni, allora ti rendi conto che c’è l’opera di Qualcun altro, se no sarebbe impossibile per noi...». Nessuna promessa di paradiso, i problemi ci sono e magari verrebbe da gettare la spugna, senza contare che «i nostri figli a volte vorrebbero essere nati in una famiglia 'normale'», raccontano ridendo i genitori. «Quando senti tua figlia che dice esasperata 'ti abbiamo dato tutto, la camera, i vestiti, ora vuoi anche la mia bambola?', sai che non è suo il 'sì' che abbiamo detto ed è giusto che si sfoghi...». Anche perché quella stessa figlia quando poi è a scuola parla di «mia sorella», non di una bimba in affido, e questo le resterà dentro per la vita. «Io è guardando i miei genitori che ho imparato da piccolo a farmi carico delle persone», conferma Amedeo Capetti, tornato a sera dall’ospedale Sacco, dov’è infettivologo. In casa sua nei mesi sono passati dieci 'figli', compresa la madre dei tre bimbi, ma come vengono poi se ne vanno. «È solo la conferma che la bellezza prosegue – assicura sereno –, c’è chi semina e chi raccoglie, e i frutti sono di tutti».