lunedì 23 febbraio 2015
​​La Cassazione rende note le motivazioni che hanno portato, lo scorso novembre, all'annullamento dei risarcimenti per le vittime: erano già trascorsi 15 anni.
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​​Il processo torinese per le morti da amianto era prescritto prima ancora del rinvio a giudizio dell'imprenditore svizzero Schmideiny: lo sottolinea la Cassazione nelle motivazioni, depositate oggi, del verdetto di prescrizione che lo scorso 19 novembre ha, tra l'altro, annullato i risarcimenti alle vittime. Ad avviso della Cassazione "a far data dall'agosto dell'anno 1993" era ormai acclarato l'effetto nocivo delle polveri di amianto la cui lavorazione, in quell'anno, era stata "definitivamente inibita, con comando agli Enti pubblici di provvedere alla bonifica dei siti". "E da tale data - prosegue il verdetto - a quella del rinvio a giudizio (2009) e della sentenza di primo grado (13-02-2012) sono passati ben oltre i 15 anni previsti" per "la maturazione della prescrizione in base alla legge 251 del 2005". Per effetto della constatazione della prescrizione del reato, intervenuta anteriormente alla sentenza di I grado", cadono "tutte le questioni sostanziali concernenti gli interessi civili e il risarcimento dei danni". Ad avviso della Cassazione l'imputazione di disastro a carico dell'imprenditore svizzero Stephan Schmidheiny non era la più adatta da applicare per il rinvio a giudizio dal momento che la condanna massima sarebbe troppo bassa, per chi miete morti e malati, perché punita con 12 anni di reclusione. Lo scrivono i supremi giudici nel verdetto Eternit. In pratica "colui che dolosamente provoca, con la condotta produttiva di disastro, plurimi omicidi, ovverosia, in sostanza, una strage" verrebbe punito con solo 12 anni di carcere e questo è "insostenibile dal punto di vista sistematico, oltre che contrario al buon senso", aggiunge la Suprema Corte. Per la Cassazione "la consumazione del reato di disastro non può considerarsi protratta oltre il momento in cui ebbero fine le immissioni delle polveri" d'amianto "prodotte dagli stabilimenti" gestiti da Stephan Schmidheiny e cioè "non oltre il mese di giugno dell'anno 1986, in cui venne dichiarato il fallimento delle società del gruppo". Lo scrivono i supremi giudici nelle motivazioni del verdetto Eternit. Con il fallimento - scrive la Cassazione - "venne meno ogni potere gestorio riferibile all'imputato e al gruppo svizzero" e gli stabilimenti (Casale Monserrato e Cavagnolo in Piemonte, Napoli-Bagnoli in Campania e Rubiera in Emilia, cessarono l'attività produttiva "che aveva determinato e completato per accumulo e progressivo incessante incremento la disastrosa contaminazione dell'ambiente lavorativo e del territorio circostante".
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