sabato 10 luglio 2010
Lo ha reso noto nei giorni scorsi l'agenzia di stampa libica "Jana" negando però che i profughi siano stati vittima di violenze.
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Sarebbero 400 i rifugiati politici eritrei presenti in Libia e di questi, 245 sono stati respinti da pattuglie italiane e consegnati alla Libia. Lo ha reso noto nei giorni scorsi l'agenzia ufficiale Jana in un comunicato ripreso dall'agenzia di stampa Reuters. Nella nota, il portavoce della Jamahiriya nega che i profughi siano stati vittime di violenze: "Sono trattati come ospiti temporanei - dice un comunicato del ministero degli esteri libico citato dall'agenzia Jana-. Le autorità libiche hanno aperto i centri di detenzione agli organizmi umanitari e ai rappresentanti diplomatici perché testimonino le condizioni e il trattamento dei migranti. È una cosa che smentisce le accuse di maltrattamento».Malgrado le rassicurazioni fornite dall'Italia e dalla Libia, le condizioni dei 250 profughi eritrei detenuti nel carcere di Brak, nel cuore del deserto libico, non sono cambiate. La liberazione sembra essere ancora lontana. L'APPELLO DI NAPOLITANOChiarire al più presto «le ragioni che hanno determinato la richiesta di iauto dei rifugiati eritrei». E poi «fare luce sulle condizioni della loro permanenza presso i campi profughi della Libia». Il Quirinale interviene con forza nella vicenda dei profughi rinchiusi da ormai più di dieci giorni nel carcere di Brak, un punto disperso nel rovente deserto libico. In una lettera al Comitato italiano rifugiati (Cir), che nei giorni scorsi si era appellato proprio a Napolitano per una soluzione alla vicenda, il consigliere degli Affari diplomatici del Colle, Rocco Cangelosi, ha confermato che il capo dello Stato «sta seguendo con attenzione, in stretto raccordo con il Governo, la vicenda degli 245 eritrei detenuti». E ha rilevato che «la Farnesina, unitamente all’Ambasciata a Tripoli, si è attivata per la piena ripresa delle attività dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati in Libia e ha rappresentato l’esigenza di assicurare ai rifugiati assistenza umanitaria, protezione, un trattamento che non sia lesivo della loro dignità ed incolumità fisica». Un segnale importante, secondo i vertici stessi del Cir, visto che finora proprio l’Acnur era stato "tagliato" fuori dalla vicenda.Intanto, però, non è ancora finita l’odissea dei 250 profughi eritrei rinchiusi nel carcere di Brak: nessuno è stato ancora liberato, nonostante la notizia del vicino accordo con le autorità di Tripoli e la promessa di dar loro un lavoro, assomiglia ancora solo a un buon proposito. E mentre proprio dal governo libico è arrivata giovedì la secca smentita dei maltrattamenti avvenuti dietro le sbarre, anche se le condizioni dei prigionieri sembrano essere migliorate – pare che finalmente siano arrivati cibo e acqua sufficienti per tutti – l’attesa continua. Carica di dubbi e perplessità.Prima fra tutte, quella sui particolari stessi dell’accordo, ancora poco chiari secondo le associazioni impegnate in difesa dei diritti umanitari. Come quello dell’identificazione dei profughi: una procedura che la prassi vuole sia avviata in stretta collaborazione con le autorità del Paese di provenienza degli immigrati, in questo caso l’Eritrea. Ma proprio per la delicata posizione dei 250 profughi, il passaggio di dati potrebbe ritorcersi contro i loro familiari che sono rimasti in patria, determinando nuove violenze e maltrattamenti. E poi sul piatto rimane la questione, altrettanto problematica, dello status degli eritrei in Libia, dove non esiste diritto d’asilo e non viene riconosciuta la condizione di rifugiato: «Ci chiediamo che tipo di tutele potrebbero avere, una volta liberati da Brak e messi a lavorare in territorio libico, per giunta divisi gli uni dagli altri – ha sottolineato Christopher Hein, direttore del Comitato italiano rifugiati (Cir) –. Per questo continueremo a insistere sulla necessità del loro immediato trasferimento in Italia».Sulla stessa proposta, peraltro, ieri ha calcato la mano anche l’associazione Papa Giovanni XXIII, che con una nota-appello alle autorità italiane e al presidente Napolitano, ha chiesto che gli eritrei vengano trasferiti nel nostro Paese, dando anche la disponibilità di accoglierli presso le strutture e le case famiglia dell’associazione: «Anche dopo la scarcerazione – spiega l’associazione fondata da don Benzi – queste persone immigrate per disperazione dal proprio Paese si vedono costrette a restare nella nazione libica senza nessuna possibilità di poter rivendicare il proprio diritto di asilo e la realizzazione dei loro bisogni primari. È impietoso il trattamento che questi fratelli stanno subendo anche dall’Italia e dall’Europa».
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