venerdì 6 gennaio 2012
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​Capitale per gli imperatori e suburra per la plebe: sono le contraddizioni mai risolte di quella che, ricorda lo scrittore Eraldo Affinati, è sempre stata una città da conquistare. «Roma – prosegue – è un luogo di potere, e non in senso strettamente politico: se sei nato in borgata sai che i soldi girano in centro ed è lì che devi arrivare per essere qualcuno. E per essere qualcuno, in questo momento, si è disposti a fare di tutto, a superare qualsiasi limite».Insegnante nelle scuole della periferia romana, con un impegno testimoniato in libri come La città dei ragazzi, Affinati segue con apprensione il moltiplicarsi di episodi di violenza nella capitale, culminati nell’orribile delitto di Tor Pignattara. Nonostante tutto, però, non si dichiara stupito: «Negli ultimi anni – racconta – mi sono reso conto che i ragazzi sono sempre più disorientati, sempre più alla ricerca di un buon motivo per non cedere alla tentazione del tutto e subito. Spesso, a scuola, mi prendono in giro: “Lei non ruba, non si droga... ma come fa, professore?”. Il tono è scherzoso, ma si capisce che sotto c’è una richiesta autentica, addirittura drammatica».E lei come risponde?«Cercando di fare il mio mestiere di educatore, come tanti altri colleghi che in questo momento stanno svolgendo un lavoro enorme, spesso misconosciuto a livello sociale. Più che altro, cerco di testimoniare come si possa essere persone complete in questo mondo, senza cadere nelle tante trappole da cui i giovani sono invece minacciati».Un contesto ostile?Una serie di elementi che congiurano contro di loro, direi. Il primo è la frantumazione dei legami familiari, sempre più evidente. Poi viene la presenza di un gruppo che, all’occorrenza, può trasformarsi in branco, esigendo prove di forza. È per questa strada che si arriva al terzo passaggio tipico dell’iniziazione criminale: il territorio esterno si sostituisce allo spazio domestico, si vive sempre e soltanto “fuori”, in tutti i sensi. A questo si aggiungono oggi elementi nuovi, che ancora non abbiamo imparato a valutare».A che cosa si riferisce?«Personalmente sono impressionato dalla deflagrazione del desiderio, che va di pari passo con un’inarrestabile virtualizzazione dell’esperienza. Il tempo fra il pensiero e l’azione si riduce sempre di più, non si riflette mai sulle conseguenze dei propri gesti. So che è ancora troppo presto per capire che cosa è veramente accaduto l’altra sera, ma in quella pistola puntata contro una bambina di pochi mesi mi pare di riconoscere un’irresponsabilità assoluta, che può essere ancora più grave di una ferocia premeditata».Non vede anche l’ombra dell’intolleranza?«Ripeto: non ne sappiamo abbastanza e c’è il rischio di cadere in giudizi affrettati. Di primo acchito, però, mi sentirei di escludere un movente xenofobo, anche perché Roma è una città di straordinaria tolleranza, la capitale di un meticciato vivace, che si declina nella quotidianità. Al posto di quel padre e di quella bambina poteva esserci chiunque e questo, a pensarci bene, è ancora più inquietante».E l’insicurezza economica? Non può giocare a sua volta un ruolo in questa ondata di delitti?«Può essere una variabile di cui tenere conto, ma spingersi più in là significherebbe cadere in uno schematismo eccessivo. Chiaro che, in un periodo come l’attuale, le fragilità si acuiscono. La vera crisi, però, è di natura morale e non nasce oggi. I ragazzi ne sono le vittime, non i responsabili».A che cosa si riferisce?«Al mancato ruolo degli adulti, delle famiglie. Mi capita spesso di incontrare genitori che sono dolorosamente inadatti al loro compito, persone abbagliate da quello stesso culto dell’apparenza dal quale dovrebbero mettere in guardia i figli. Sono gli effetti di una trasformazione antropologica che nell’ultimo decennio ha proceduto a tappe forzate, ma che ancora non considero irreversibile. Per questo, in fondo, continuo a fare l’insegnante».
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