mercoledì 25 maggio 2016
​Viaggio nel capoluogo piemontese che sta facendo il salto verso un nuovo modello produttivo e occupazionale. Innovazione e governabilità le priorità.
Comunali, a Torino il futuro oltre la Fiat
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​Sono passati più di cinquant’anni da quando questa città contava un milione di abitanti, intorno a Mirafiori cresceva la seconda fabbrica di automobili d’Europa e la 500 incarnava il simbolo del miracolo economico. Eppure, ancora oggi che la "superutilitaria" più famosa del mondo nasce in Polonia, i torinesi sono centomila meno e le tute blu un quinto di allora, parlare del futuro di Torino significa chiedersi cosa sarà della Fiat. Che sotto la Mole continuano a chiamare così. Si sorseggi il vermut ai tavolini del caffè San Carlo o si aspetti la pensione sulle panchine della Falchera, per tutti la Fca è quella che ha spostato la sede in Olanda e i conti in Gran Bretagna e su Corso Giovanni Agnelli si affaccia ancora la Fabbrica Italiana Automobili Torino, autentico genius loci della città, al pari del Museo Egizio e del Carignano. Non è solo un fatto di numeri - il polo automobilistico, con i suoi ventimila addetti (compresa Grugliasco), rappresenta il 2% di tutti gli occupati della Provincia di Torino -: semplicemente, fa troppo male prendere atto che il passato non costituisca più una prospettiva su cui lavorare. In campagna elettorale il sindaco Piero Fassino è solito addolcire la pillola così: «il nostro profilo industriale lo disegnano l’areospaziale, la meccatronica, l’ict, ma anche l’automotive; soltanto che prima le aziende dell’indotto lavoravano all’80 per cento per la Fiat e al 20 per il resto del mondo e adesso succede il contrario». In verità, che indietro non si torna lo sanno tutti. Persino Sel, che ha spaccato il centrosinistra per fare il pieno di voti al primo turno e al ballottaggio potrebbe essere decisiva nel far eleggere quel sindaco della "Torino da bere" che i nostalgici della lotta di classe accusano di aver reso "invisibili" i centomila operai che hanno fatto grande la città: «inghiottiti dal nulla, la città non li prevede: né i loro corpi né le loro teste , né quelle dei loro figli, un tempo allievi della prestigiosa Scuola Fiat, oggi per lo più titolari dei 4 milioni di voucher che si sono contati in città nel 2015 (e già aumentati del 65% nel 2016), precari sguatteri dei fast food cresciuti come una giungla», recita l’epitaffio della Mole operaia che Luciana Castellina ha vergato qualche giorno fa sul Manifesto. Lasciarsi alle spalle la monocultura Fiat è il cimento dei candidati alle amministrative a forte rischio astensione. Fca ha scelto di concentrare in questa città produzioni di alta gamma che non autorizzano a sognare una nuova primavera fordista, ma intercettano la carica di innovazione che sta caratterizzando da anni la riconversione del tessuto produttivo torinese. Questa evoluzione fa crescere l’export (+10%) ma non assicura le stesse performances occupazionali. Come ci spiega un vecchio sindacalista, «oggigiorno un lento rientro della cig (ancora 2.000 operai delle carrozzerie sono a zero ore; ndr) equivale alla creazione di nuovi posti di lavoro: la Fiat non sarà mai più quella delle centomila tute blu, tuttavia salvarne la presenza in città e mantenere a Torino talune scelte strategiche resta un grande risultato». Il problema è capire quanti tra coloro che hanno lavorato alla Punto riusciranno a convertirsi a produzioni complesse come quelle di Maserati e Alfa. Richiedono un salto di qualità, cui Fca sta formando il personale e che impegnerà anche l’indotto. Uno scenario implicitamente confermato anche da Sel quando polemizza sui «nonni in catena di montaggio» dell’Iveco. Non sorprende che sotto elezioni in una città post-industriale-ma-ancora-orgogliosamente-industriale ci si accapigli su lavoro e pensioni. Semmai, balza agli occhi che nei programmi elettorali l’innovazione scientifica e tecnologica, che prima veniva infilata tra una variante di prg e l’altra per rendere il candidato più cool, acquisisca un peso nuovo. Ovviamente, ciascuno lo declina in base alla sensibilità del proprio elettorato: Fassino scommette sull’innovation mile (il trincerone ferroviario che divideva la città, trasformato in un viale percorribile in cui si concentrano le realtà legate al mondo della ricerca), la Appendino vorrebbe «implementare l’utilizzo di Open data e Big data per migliorare la mobilità», Morano se la prende con le «carenze» di anagrafe e ospedali, mentre il centrista Roberto Rosso vede «enormi possibilità di sinergie».È un fatto che, secondo la Commissione europea, siamo nella seconda città più innovativa d’Europa, subito dopo Amsterdam; banda larga, servizi digitali, sviluppo sostenibile, il riconoscimento premia il centrosinistra, al governo di Torino da 23 anni, e dimostra che Torino sta già affrancandosi dalla monocultura automobilistica. Quest’emancipazione avviene sotto l’egida dei poteri forti della Città, che non abitano più in Corso Marconi bensì al Politecnico e nelle Fondazioni bancarie. Loro progettano e, spesso, loro finanziano. Dal Parco Dora si srotola un’infiorata di parchi tecnologici, incubatori, centri servizi di multinazionali. Uno dei progetti più gettonati è il raddoppio del Politecnico, "serbatoio" di una ripresa che arride solo ai "qualificati" e spaventa chi opera affinché nessuno resti escluso. Secondo la Caritas diocesana, «la povertà aumenta nelle fasce estreme e i nuovi poveri, che fino a tre anni fa ci chiedevano una mano per il mutuo, ora ritirano il pacco alimentare», come spiega il direttore Pierluigi Dovis. Il 15% della popolazione sta male o è a rischio. Non a caso, uno dei temi caldi della campagna elettorale è l’emergenza abitativa. «Si fa un gran parlare di Prg per modernizzare il volto della città ed è giusto - dichiara Nanni Tosco, presidente dell’Ufficio Pio della Compagnia di San Paolo - ma se vogliamo evitare uno scivolamento di fette di popolazione nell’area dei nuovi poveri dobbiamo associare ad ogni variante e alla costruzione di nuove abitazioni un piano sociale che preveda interventi di rigenerazione del territorio, magari housing sociale come è stato fatto da Compagnia a San Salvario e Porta Palazzo, e prevenzione del disagio sociale nelle famiglie». A Torino non esiste un generico problema delle periferie - grazie ai fondi europei Mirafiori Nord e Barriera stanno cambiando volto - ma alcune zone, come Quadrante Nord, Falchera e Barca, oggi sono più isolate. A complicare le cose, il nuovo sindaco di Torino guiderà anche la città metropolitana, super-ente di 315 Comuni, ereditati dalla defunta Provincia. Fassino la chiama «opportunità», in quanto aiuterà a mettere in rete progetti e servizi, ma ha già chiesto al governo di dotarla di risorse proprie. Diversamente, resterà al palo. Nei sondaggi, l’esponente del Pd è il grande favorito e la candidata M5S Chiara Appendino l’unica sfidante. Nessuna chance per il centrodestra: prima è esploso (Osvaldo Napoli per Forza Italia, Alberto Morano per Lega e Fratelli d’Italia e l’ex forzista Roberto Rosso, appoggiato da Udc-Area Popolare) e negli ultimi giorni è iniziato un clamoroso esodo -  capeggiato dall’ex governatore del Piemonte Enzo Ghigo e dall’ex vicepresidente del Csm Michele Vietti - verso i "Moderati con Fassino". Il minipartito di Giacomo Portas (10% nel 2011) offre la rappresentazione plastica della capacità dell’establishment torinese di comporre, come in una catena di montaggio, interessi, progetti, ambizioni e mondi apparentemente incompatibili. Al momento di votare, dall’assemblaggio esce una "macchina" in grado di vincere perché rappresenta tutta (o quasi) la città; anche se poi alla guida trovi sempre gli stessi autisti. Il mood di questi ambienti ce lo spiega Tom Dealessandri, che è stato vicesindaco di Sergio Chiamparino e ora guida il distretto aerospaziale. Anche lui, ça va sans dire, viene dal sindacato: «Questa è una metropoli, una città di fabbriche e di santi sociali, da qui è partito lo Stato italiano - anche come cultura amministrativa - e qui la lotta di classe c’è stata veramente, anche come lotta armata; tuttavia, qui è maturata anche la cultura della condivisione che ha portato i torinesi a rinunciare a pezzi importanti di industria automobilistica perché esistessero Melfi e Pomigliano d’Arco, qui l’automotive è trainante ma qui l’Ict ha una storia altrettanto ricca. E qui c’è la testa dell’industria aerospaziale italiana… Insomma, governare Torino è complesso e la "governabilità" per noi torinesi è un bene irrinunciabile, perché è il cuore che fa battere l’economia, la cultura, l’educazione, la solidarietà. Tutto quanto».
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