martedì 6 luglio 2010
Nella mappa delle buone pratiche censite da Università Cattolica e Diesse Lombardia centinaia di laboratori interculturali, corsi di alfabetizzazione per adulti, cene etniche. E perfino 8 diverse Costituzioni studiate da 18 ragazzi di 8 nazionalità diverse. Quasi tutto affidato all’iniziativa del volontariato.
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Giro del mondo in otto Costituzioni. Nella scuola Bianca Maria Visconti di Cremona i bambini di quarta elementare hanno imparato così cosa vogliono dire "cittadinanza" e "integrazione". Italiani a fianco di albanesi, romeni, ivoriani, marocchini, cileni, ecuadoregni, nigeriani. Diciotto ragazzini, di otto nazionalità diverse, hanno ripassato la legge e la storia della propria terra, a partire dai colori della propria bandiera. Merito di un gruppo di insegnanti che non ha aspettato direttive ministeriali o provvedimenti dall’alto. Si sono mossi loro, punto e basta. Nella scuola italiana funziona così.L’immigrazione non è più una scoperta da molto tempo, si sa, e i passi sulla via dell’integrazione sono più o meno obbligati. Come è accaduto a Roma, nel quartiere Esquilino, dove un gruppo di famiglie ha ricostruito da capo a piedi la scuola dei propri figli. Bimbi asiatici che parlano romano meglio dei figli della Capitale. Ora l’Istituto comprensivo Daniele Manin è considerato un modello, non solo nel Lazio. E l’elenco potrebbe continuare, come ha evidenziato ieri a Milano un progetto di ricerca presentato dall’Università Cattolica e da Diesse Lombardia. Sono 246 i progetti di educazione interculturale censiti, 3 i progetti extraregionali e altrettanti quelli internazionali, con centinaia di operatori coinvolti, dagli insegnanti ai mediatori culturali fino ai volontari.Una mappa delle buone pratiche che, su base nazionale, va da Nord a Sud, passando per città come Mantova, Varese, Parma, accomunando le periferia di grandi città come Milano e località sconosciute del Centro Italia. Le modalità sono le più diverse: si va dai laboratori interculturali alle cene etniche, dai corsi di alfabetizzazione per adulti alla formazione dei docenti.Oltre il (falso) tabù della linguaAndiamo con ordine: l’italiano è o no un problema per la seconda generazione degli immigrati? Non lo è. «Per chi è nato in Italia, le possibilità di apprendimento della nostra lingua sono sostanzialmente uguali a quelle degli italiani – spiega Donatella Bramanti, sociologa dell’infanzia e della famiglia alla Cattolica di Milano. – Il problema è rappresentato dagli inserimenti repentini: se da un giorno con l’altro sui banchi di scuola ti ritrovi un ragazzino di 10 anni che fino a ieri abitava dall’altra parte del mondo e non sa una parola di italiano, come si può pensare di aggregarlo col resto della classe sin da subito?». Qui entrano in gioco i momenti preziosi del dopo-scuola organizzato, la pazienza di molte insegnanti che si offrono gratis per le ripetizioni a gruppi di diversi gruppi stranieri, oltre all’opportunità di agganciare gli adulti. «Se questi corsi funzionano, poi arrivano anche i genitori» osserva Bramanti. L’altra faccia del problema riguarda la lingua d’origine. «Per molti la lingua madre è l’italiano, ma è importante che non perdano la possibilità di parlare e scrivere in arabo o in cinese».La realtà e le politiche«La realtà va verso l’integrazione, il resto sono rappresentazioni mediatiche» afferma Milena Santerini, docente di Pedagogia generale all’ateneo di largo Gemelli, che ha appena dato alle stampe il volume La qualità della scuola interculturale (Erickson). Per Santerini, in questo campo «occorre uscire dalla logica dell’emergenza, superando il concetto delle buone pratiche». La sfida adesso è quella di rendere sempre più protagoniste le famiglie, unendo integrazione e intercultura: vanno bene le pagelle tradotte in tutte le lingue parlate dalla classe, così come tutte le iniziative nate dal basso. «Però la scuola deve fare la scuola, riappropriandosi del proprio ruolo» riassume Franco Camisasca, uno degli autori della ricerca presentata ieri. Dare spazio alle domande dei bambini, qualunque sia la loro provenienza, trovare le risposte giuste, rispettare i programmi didattici e i tempi dell’apprendimento. Resta il fatto che la scuola italiana, sempre più cartina di tornasole dell’Italia che verrà, non ha ancora del tutto compreso l’importanza del proprio ruolo. Mancano ancora gli strumenti necessari per passare dalle parole ai fatti: il materiale didattico è pressoché inesistente, il volontariato dei prof rimane altissimo, la possibilità di fare rete sul territorio con la pubblica amministrazione e i soggetti del privato sociale è seriamente compromessa dal perdurare della crisi economica, che riduce fondi e progetti. «È vero, la scuola deve attrezzarsi per essere sempre più veicolo d’integrazione – sottolinea Santerini. – Però occorrono meno tagli alle risorse e più investimenti: su questa frontiera, insegnanti e genitori non possono essere lasciati da soli».
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