giovedì 17 aprile 2014
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Chi da sempre vive da criminale, e criminali sono i suoi pensieri, e frequenta solo altri criminali, beh, la sua vi­ta è molto, molto difficile da comprendere per noi. Im­possibile, forse. Appartengono a un mondo totalmente diver­so. Così rimasi stupito quando mi chiamarono...  Ero appena arrivato. Loro erano cinque detenuti dell’alta si­curezza, la sezione della criminalità organizzata: mafia, ca­morra, ’ndrangheta, sacra corona unita. Un altro mondo. Però mi chiamano. Hanno tutti pene pesanti da scontare, fino a 20­25 anni. Lo ammetto: detenuti così li immaginavo 'senza spe­ranza'. Ma loro no. Eppure la disperazione sarebbe stata una tentazione facile.Loro invece mi cercavano. Avevano già cominciato un percor­so, capace di dare un senso a tutti quegli anni da trascorrere in carcere. Ma quel percorso sentivano che aveva bisogno di 'vi­sibilità', di una forma di rico­noscimento anche di fronte al­le istituzioni. La voglia di ri­scatto non poteva rimanere confinata nei loro cuori. Era un gruppo vero e proprio, per quanto piccolo, quindi bi­sognava darsi un nome: 'Il la­ghetto pensatore', con il trat­tino tra 'la' e 'ghetto', perché erano acqua capace di ospita­re e dare vita, ma erano anche, oggettivamente, rinchiusi. E il 'pensatore'? Pensiero, ossia ri­flettere sui propri personali percorsi criminali e maturare un futuro fatto di riscatto e rein­serimento. Cominciava così un percorso umano, culturale e anche spirituale, scandito da periodici incontri personali.  Riprendono in mano i libri. Riescono a ottenere il diploma, al­cuni si iscrivono all’università. Avevamo un giornalino, 'In co­munione', un fatto eccezionale per l’alta sicurezza. Ogni me­se riuscivo a farlo pubblicare come inserto centrale nel setti­manale diocesano. Di una cosa ero soprattutto orgoglioso: non era fatto di piagnistei, come purtroppo accade in tanti fogli si­mili. Invece grondava ottimismo, a partire dall’atteggiamento critico e da una chiara presa di distanza dalle scelte criminali del passato. E poi c’era il teatro, testi scritti da loro, un pubbli­co fatto di studenti.  Poi tutto è finito. Alcuni di loro sono stati trasferiti, l’alta sicu­rezza smantellata; e le istituzioni faticavano a reagire, di fron­te a un percorso così proficuo e limpido. Forse non credevano abbastanza in loro... Con molti ho mantenuto i contatti. Uno è fuori, in semilibertà, e lavora. Ne sono felice.  Il perdono lo vedevo e vedo in loro. Nel desiderio di reinserir­si, nella richiesta di aiuto. Perdonateci, e dateci credito. Perdo­nateci, e offriteci un’altra possibilità. (Storia raccontata da don Raffaele Sarno, Trani)
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