sabato 12 luglio 2014
​Dopo la denuncia di Reggio Calabria, anche gip e pm di Milano, Torino, Roma e Napoli lanciano l'allarme: la decisione della Consulta di eliminare l'equiparazione tra droghe "leggere" e "pesanti" complica il nostro lavoro di indagine.
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Arresti diminuiti e ricorsi aumentati. E molto incertezza. Sono le prime immediate e gravi conseguenze dell’applicazione della sentenza della Consulta che lo scorso 12 febbraio ha dichiarato incostituzionali due articoli del decreto legge 272 del 30 dicembre 2005 (la cosiddetta "Fini-Giovanardi") che aveva equiparato da un punto di vista penale droghe "pesanti" e "leggere". «I carabinieri ci chiedono sempre di più se possono arrestare o no», spiega un magistrato romano che si sfoga: «Non è possibile andare avanti con una norma nuova al mese...». Mentre uno napoletano lancia l’allarme: «Siamo invasi di ricorsi di detenuti con la richiesta delle rideterminazione della pena, dopo che la Corte l’ha riportata a 1-6 anni spiegando che l’effetto è retroattivo. E questo grava moltissimo sul nostro lavoro che è già tantissimo».Non solo Reggio Calabria. Anche i magistrati e gli investigatori di Torino, Milano, Roma e Napoli lanciano l’allarme sulle difficoltà e la confusione per le indagini sui traffici di droga dopo la recente sentenza della Corte costituzionale sulle droghe leggere. Ma nel mirino delle critiche non è solo questa decisione della Consulta che ha di fatto abbassato le pene per le droghe leggere. Sia gip che pm parlano, infatti, degli «effetti negativi provocati dal combinato disposto tra questa sentenza e alcuni decreti, in particolare i due "svuota carceri"», che rende molto più difficile gli arresti per la cannabis. Si tratta del decreto legge n.78 del 1 luglio 2013 secondo il quale non scatta la custodia cautelare se il reato non è punibile con una pena inferiore a 5 anni mentre prima erano 4. Poi il decreto legge n.146 del 23 dicembre 2013 che, modificando il 5° comma dell’articolo 73 della legge del 1990, ha trasformato l’ipotesi del fatto di lieve entità da circostanza attenuante a reato autonomo, abbassando la pena a 1-5 anni. Infine l’articolo 8 del decreto legge n. 92 di quest’anno che dispone che «non può applicarsi la misura della custodia cautelare in carcere se il giudice ritiene che, all’esito del giudizio, la pena detentiva non sarà superiore a tre anni».«Su queste norme – spiega il gip romano Valerio Savio, vicepresidente dell’Anm – è arrivata la sentenza della Consulta che riportando per le droghe leggere la pena da 6 a 20 anni a quella da 2 a 6, rende molto complessa la custodia cautelare». E fa un esempio. «Se in un’intercettazione telefonica non si capisce se si parla di cocaina o di hashish, nel dubbio si preferisce non arrestare». «C’è una confusione totale – rincara la dose un collega napoletano –. Questo rincorrersi di norme ci rende difficile il lavoro. È un intreccio di leggi che richiede di essere interpretato. Servirebbe invece chiarezza». «Si è davvero creato un "buco" come avete scritto su Avvenire – commenta anche il giudice Alberto Cisterna, a lungo in Procura nazionale antimafia –, c’è stata un decelerazione troppo brusca per quanto riguarda la custodia cautelare che ora è uno strumento di meno rigore. E questo rende più complesse le indagini».Insomma gli inquirenti più esposti sul fronte antidroga non l’hanno presa bene. Non solo perché dietro al piccolo spaccio delle "leggere" c’è sempre un’organizzazione "pesante" che diversifica l’offerta, sapendo che tra i consumatori della cannabis prima o poi molti passeranno alla coca e alle pasticche. Ma anche perché le ricadute sociali del piccolo spaccio non hanno niente di tranquillizzante. «Arrestiamo un tizio con precedenti specifici. Magari lo portiamo dentro per la quinta volta – si lamenta un agente della narcotici in servizio in Lombardia –, e dopo un paio di giorni è già sulla strada a sbeffeggiare i residenti che magari ci avevano chiamato per toglierlo di torno». Peggio ancora va con le intercettazioni. Un ufficiale della Guardia di finanza, protagonista di alcune spettacolari operazioni contro i network della cocaina, non nasconde la frustrazione. «È una questione di fiuto e di fortuna. Alle volte pedinavamo un minorenne per giorni. Uno di quei bulletti che arrotondano la paghetta passando di mano qualche canna. Facevamo il percorso inverso, tentando di risalire la filiera. Ci bastava un’intercettazione per entrare in azione». E adesso? «Adesso è tempo perso. Perché se quel ragazzino dicesse al telefono che aspetta "un paio di siga", noi sappiamo che si riferisce a cannabis e non a sigarette, e siccome stando alle norme si tratta di un reato con una pena inferiore ai tre anni, nei fatti ci è impedito intervenire, costringendoci a perdere decine di opportunità per arrestare i boss della droga». E questo loro lo hanno capito, parcellizzando la distribuzione «in modo che l’arresto diventi l’ultima opzione». Sapendo che lo Stato «si è legato le mani da solo, diventando il socio perfetto: gli facilita il lavoro e non chiede nulla in cambio».
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