martedì 8 ottobre 2019
Il centro storico della città è in ostaggio di spaccio e prostituzione. La lotta quotidiana del parroco delle Vigne, don Nicolò Anselmi. Il procuratore Cozzi: «Un piano Marshall per gli adolescenti»
Spacciatori, tossici, prostitute: i caruggi di Genova, così come si presentano alle 5 di un normale pomeriggio infrasettimanale. A sera la zona diventa impercorribile

Spacciatori, tossici, prostitute: i caruggi di Genova, così come si presentano alle 5 di un normale pomeriggio infrasettimanale. A sera la zona diventa impercorribile

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Cinque di pomeriggio e nel cuore di Genova, mentre i bimbi escono da scuola e i turisti affollano i bar, entra nel vivo il mercato della droga e della carne. Tra Vico Mele e Vico del Santo Sepolcro c’è odore di birra e sudore, saranno già in venti ad aspettare col borsello aperto: tutti africani, merce anche loro (a buon mercato) per la mafia soprattutto italiana che manovra il traffico della “roba” e il via vai dei clienti delle prostitute dagli appartamenti sfasciati. Keyla ha gli occhi sbarrati: «No foto» ripete come un automa, guardando su, dove si intravede il cielo. John, che arriva dalla Nigeria, sorride con le sue cicatrici e spiega che al mattino lavora a chiamata, il pomeriggio fa il protettore a 20 euro. È contento, mentre stringe la mano a don Nicolò, gli chiede persino una benedizione. Arrivano gli spacciatori, corrono le ragazzine in vendita per il crac: «Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo».

C’è tutto il male, mescolato a tutto il bene del mondo, nel centro storico di Genova. Lo spaccio è solo l’inizio. I clienti dei ragazzi col borsello sono spesso ragazzi normali, chi gioca a calcio nella squadra della scuola, chi cerca sballo per il sabato sera. L’età dei consumatori si è abbassata drasticamente, i blitz della polizia sono all’ordine della settimana. Ma non bastano: su venti pusher cacciati ne spuntano altri venti. Spesso gli stessi della settimana prima, già fuori. E la processione continua. Don Nicolò – che di cognome fa Anselmi, è vescovo ausiliare di Genova ed è anche il vicario del cardinale Angelo Bagnasco – è il parroco della Madonna delle Vigne. Tanta bellezza, al centro di tanto dolore. Lui non si arrende: gli spacciatori, e gli ultimi, e le prostitute, gli ubriachi, i tossici, li conosce tutti per nome. «Cosa fai qui? Perché non mi aiuti coi tavoli? Perché sei in giro e non a studiare?». Quando passa, con le maniche di camicia arrotolate, gli ultimi si bloccano: «Don, aiuta me!» dice Honesty, che cerca lavoro. «Don, confessami!» implora Maria, che si vende per dar da mangiare ai figli a casa e non smette di ringraziarlo per il pellegrinaggio a Lourdes della scorsa primavera, in cui ha invitato anche lei.

«Esco dalla chiesa e me li trovo davanti, una nuvola di spacciatori. Ho sempre la sensazione che siano lì per me, ad aspettare me – spiega don Nicolò –. "Salvami", ripetono nella mia mente, e io vorrei fare qualcosa, ma non so cosa». Si parte dalla presenza: in strada e in oratorio, un chiostro incantevole di pietra, contornato dagli ulivi, dove giocano e ridono decine di bambini di tutti i colori e di tutte le provenienze. Accanto a loro, i nonni del quartiere che aiutano a fare i compiti, e quelli che giocano a tombola. Qualche mese fa, l’impotenza ha lasciato spazio alla fantasia, e il “don dei vicoli” s’è inventato una squadra di pulizie per il centro di Genova. Per una paghetta di 158 euro al mese, e un lavoro da volontari spazzini di 6 ore a settimana, si sono presentati in 53. Il progetto, finanziato da un’associazione, aveva fondi soltanto per 12 posizioni, e così a 12 don Nicolò ha dovuto fermare la sua conta: «Li chiamo i miei 12 apostoli. Questo piccolo lavoro è bastato per risollevarli dalla polvere, perché la gente li guardasse in un altro modo». Tra loro c’è anche Boban, un clochard che nel 2014 venne quasi ammazzato di botte mentre dormiva sotto i portici di piazza Piccapietra: l’aggressione gli costò un intervento al cranio, una lunga riabilitazione. «Oggi ricomincia da qui. Se solo si potesse fare di più...».

La richiesta è sul tavolo del procuratore capo Francesco Cozzi. Ponte Morandi a parte – gli sforzi delle indagini negli ultimi mesi si sono inevitabilmente concentrati su quel capitolo –, il problema dello spaccio e del consumo di droga è da sempre in cima alle priorità del magistrato: «Non perché qui ci sia un’emergenza più grave di quella che stanno vivendo anche le altre grandi città, ma perché del quantitativo enorme di droga che arriva al porto (nell’ultimo anno 3 le tonnellate di cocaina pura sequestrate tra i cargo, abbastanza per sopperire alla richiesta del Paese per un anno) molta è quella che resta, per così dire, “appiccicata” alla città». E dove c’è disponibilità di droga, la droga gira e “lavora”. Lo sa bene il direttore del Pronto soccorso dell’ospedale Galliera, Paolo Cremonesi: «Negli ultimi anni stiamo assistendo a un crollo dell’età di chi arriva qui in urgenza per aver assunto sostanze, miste ad alcol – spiega –. Dai 16-20 ci siamo spostati ai 14-16 anni. E sempre più spesso accogliamo ragazze». Il serbatoio degli orrori è proprio il centro storico della città, con la movida, le nuove droghe («5 euro ormai bastano per una pasticca») e poi le risse, gli incidenti, le violenze o tentate violenze. «Nei festivi e prefestivi assistiamo a un’impennata fino al 30% degli accessi. Ed è difficile persino quantificare i casi legati alla semplice assunzione di sostanze, tanti sono i corollari del dramma che questi ragazzini sperimentano sulla propria pelle».

Che fare? Controllo dello spaccio a parte, «è sulle reti sociali e affettive che bisogna tornare a lavorare – spiega don Nicolò –. Per i ragazzi dei vicoli serve proporre alternative e progetti, offrire protezione. Per gli adolescenti serve invece che la famiglia e la scuola tornino a lavorare insieme su ciò che è valore e ciò che non lo è. A quattordici anni vedo che farsi una canna, o sballare con l’alcol, non viene percepito come qualcosa di sbagliato, ma di normale». La collaborazione tra le istituzioni è al cuore anche della proposta sulla città del procuratore Cozzi: «Un piano Marshall per i giovani, in cui non può entrare solo l’educazione, ma anche il lavoro. Senza intervenire subito, con proposte concrete e tavoli congiunti, rischiamo di perdere un’intera generazione». A quel tavolo è già seduto da anni il Cento di solidarietà di Genova (Ceis), storica istituzione del terzo settore impegnata in città nella presa in carico del disagio giovanile (dai tossicodipendenti ai minori soli fino ai profughi in cerca di asilo): «Sul fronte dell’emergenza droga tra gli adolescenti in particolare – spiega il presidente, Enrico Costa – siamo in dialogo con le istituzioni della città e della Regione, a cui stiamo chiedendo con insistenza la possibilità di aprire una struttura dedicata, che oggi in Liguria manca completamente». Una comunità dove i ragazzi possano essere accolti, ricostruiti e riconsegnati alla società. A Genova servono risposte.

La salvezza? Sulla collina del Ceis. «Ma ora serve una comunità per minori»

Lontano, laggiù, dietro la collina su cui proiettava la sua ombra il ponte Morandi, c’è il centro di Genova. Con lo spaccio, le risse del sabato, l’emergenza della droga e dell’alcol che inghiotte i ragazzi. A Trasta no. Dal vortice si esce, o si cerca d’uscire. La comunità di recupero del Ceis, la più conosciuta di Genova, si arrampica su un’altura tra gli ulivi e le piante di limone. La statua della Madonna, ben piantata al centro del cortile con le mani giunte, sembra pregare per loro: i ragazzi che sono qui. Dimenticati, lasciati soli e raccolti. «Perché la prima vera emergenza che noi riscontriamo – spiega il direttore, Paolo Merello – è il vuoto che li circonda». Si arriva al nocciolo del discorso ancor prima di entrare dalla porta: «Quello che è cambiato davvero negli ultimi anni, e contro cui ci scontriamo, è l’assenza totale delle famiglie di chi ha una dipendenza ed entra in comunità». Pensare che i primi operatori, qui, erano proprio le mamme e i papà degli ospiti o degli ex ospiti. E invece oggi nessuna madre, nessun padre è pronto a sostenere un percorso di recupero, a interessarsi, a costruire una rete di protezione e accompagnamento in cui i ragazzi possano reinserirsi. «Come se la dipendenza da sostanze fosse una patologia di cui qualcun altro deve occuparsi, per un certo tempo – continua Merello –. Come se i figli, una volta disintossicati e “curati”, possano smettere di dar fastidio e tornare al loro posto».

Nel grande salone, vicino alla televisione, campeggia una scritta sul muro: «Siamo qui perché non c’è alcun rifugio dove nasconderci da noi stessi. Fino a quando una persona non confronta se stessa nei cuori e negli occhi degli altri, scappa». Lo sa bene Moreno, che prima di arrivare a Trasta è stato 7 anni al carcere di Marassi: racconta la sua storia con un pizzico di vanto persino, prima di arrivare alla malattia con cui dovrà convivere tutta la vita. E cambia tono, cercando di far capire agli altri ragazzi seduti al tavolo che questa è la loro ultima occasione di salvarsi, «non dovete sprecarla». A Trasta le comunità di accoglienza e recupero sono tre: una ospita 30 ragazzi tossicodipendenti per un percorso terapeutico che dura in media 18 mesi. I giovani vengono poi dirottati su alcune case alloggio, e monitorati per una altro periodo di prova, finché non ricominciano a camminare con le proprie gambe. La seconda ha 25 posti, e ospita le cosiddette “doppie diagnosi”: persone con problemi di tossicodipendenza intrecciati a patologie psichiatriche (in forte aumento). Infine “la Tartaruga”, 16 posti dedicati ai malati di Hiv. Si cerca di salvare anche loro, coi fondi dedicati al sociale: briciole, a livello regionale, con appena 300 milioni di euro stanziati per la residenzialità e solo 14 per le dipendenze.

«Ma non basta mai, e non basta più – spiega il presidente del Ceis, Enrico Costa –. Da due anni in particolare stiamo insistendo proprio con la Regione sulla necessità di una comunità di accoglienza per i giovanissimi con dipendenza. In Liguria non ne esiste nemmeno una, mentre è evidente e sotto gli occhi di tutti ormai la necessità di un intervento mirato sulla fascia d’età 16-22. Separando questi percorsi, che richiedono un progetto educativo e sociale a se stante, da quelli che normalmente approdano alle strutture terapeutiche». La burocrazia frena tutto, «e quando pensiamo d’essere a un passo dalla realizzazione del progetto, scopriamo che mancano i fondi, o i permessi, e poi di nuovo i fondi. Noi non ci arrendiamo».

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