sabato 25 giugno 2022
Nella Giornata mondiale contro le dipendenze la fotografia di un'emergenza che nessuno vuol vedere: 5.800 morti di overdose in un anno in Europa, 350 in Italia. Le comunità: «Le persone dimenticate»
Droga, mai così facile procurarsela. «Bisogna rimettere al centro i servizi»
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La lista è infinita e la fotografia scattata questa settimana dal rapporto annuale della Direzione centrale per i servizi antidroga solo l’ultimo grido di allarme su quel che sta accadendo dopo la pandemia: le sostanze scorrono a fiumi in Europa e in Italia, mai così tante (e in così grandi quantitativi) rispetto al passato. E dietro alle tonnellate di cocaina e alle migliaia di litri di droga dello stupro – l’ultimo, facile ritrovato “da sballo” che impazza non solo tra i vip, ma sempre più spesso anche tra i giovani – ecco che i numeri entrano nella carne viva di chi le sostanze le consuma, finendo nell’abisso della dipendenza. Fosse solo un problema di sequestri, la droga: l’ultimo rapporto dell’Ue ha registrato 5.800 decessi per overdose nel corso del 2021, quasi 16 morti al giorno, di cui 350 solo in Italia. A fronte di un numero impressionante di consumatori: 83 milioni di persone, il 29% della popolazione del Vecchio continente. Tra cui spiccano in maniera sempre più preoccupante i minori, come nel caso italiano, col 26% dei ragazzi in età scolare – più di 1 su 4 – che ha fatto uso di sostanze illegali nello scorso anno.

È lo scenario di un’emergenza senza precedenti quello con cui si celebra, il 26 giugno, la Giornata mondiale contro l’abuso e il traffico illecito di droga, istituita dall’Onu. Senza che, in realtà, a nessuno importi davvero qualcosa su come affrontarla e risolverla. Ci fosse un vaccino, o un tavolo straordinario pronto a riunire tutti i capi di Stato sul tema. La verità è che – interventi delle forze dell’ordine a parte, sul mercato dell’offerta – a farsi carico dell’umanità che la droga domanda e consuma continuano ad essere i malmessi Servizi pubblici per le dipendenze (Serd) e le volenterose comunità di recupero, che nel nostro Paese invocano una riforma del sistema e della legge, risalente ormai a trent’anni fa, tante volte promessa e mai davvero mantenuta. Una beffa che nel corso dell’ultimo anno ha assistito al capitolo forse più doloroso: la convocazione di una Conferenza nazionale che non si vedeva dal 2009 e che da novembre, quando si è svolta a Genova, non ha dato più alcun seguito alle richieste e alle sollecitazioni arrivate dal mondo dei servizi. Fatta eccezione, s’intende, per il controverso tema della depenalizzazione della cannabis che – sembra incredibile considerando lo scenario appena descritto – andrà al voto in Aula questo mercoledì insieme allo Ius scholae, come se fosse prioritario discutere della possibilità di coltivare piantine ad uso domestico in un Paese che ha appena registrato il record storico di sequestri di cocaina (91 tonnellate).

Il mondo delle comunità, ormai da anni, è sulle barricate. «Tutti i dati ci dicono che è necessario rimettere al centro le persone e quindi i servizi che si prendono cura di loro. Servizi che in questi ultimi anni sono stati marginalizzati e dimenticati sempre di più – spiega Luciano Squillaci, presidente della Federazione italiana delle comunità terapeutiche (Fict) –. E a marginalizzare ulteriormente il sistema dei servizi è il riaccendersi del dibattito ideologico ed anacronistico sulla legalizzazione e sul “diritto” di farsi, che rimette ancora una volta al centro del dibattito proprio la sostanza». Una battaglia, quella contro la sostanza, «che già sappiamo persa in partenza, mentre la prevenzione, la cura e la riabilitazione della persona che dovrebbero essere essenziali, sono del tutto ignorati. Un ultradecennale disinvestimento politico che ha provocato voragini nel sistema di intervento andando a minare il fondamentale diritto alla salute, che significa riconoscere la giusta dignità alle persone e quindi ai servizi».

Non a caso proprio la relazione al Parlamento, sui dati del 2020, riferisce di appena 125mila persone con problemi di dipendenza, contando esclusivamente gli “utenti” in carico al Servizio sanitario, cioè quei pochi che si riescono ancora ad intercettare attraverso il sistema ufficiale dei servizi. «Manca tutto un altro pezzo di fenomeno, che si stima essere 5 volte superiore (parliamo di oltre mezzo milione di italiani) e che, invece, non si riesce ad intercettare con servizi ampiamente superati». Di fatto, insomma, i Serd e le comunità riescono a prendere in carico solo un quinto delle persone che avrebbero bisogno di aiuto. E i numeri sono ancora più impressionanti se si considera tutto il resto del mondo delle dipendenze, in primis quelle cosiddette comportamentali (Internet, gioco ma anche alcol e psicofarmaci) che da quella stessa legge, il Testo unico del 1990, sono tagliati fuori perché allora non esistevano. «Da questa situazione si esce solo cambiando completamente paradigma, entrando in una logica di prossimità che significa ripartire dalle relazioni, abbattendo le distanze, le differenze nel settore della salute, dove con i pazienti di serie A e B, esistono anche quelli di serie C, i dimenticati da tutti, gli scarti» conclude Squillaci.

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