martedì 4 maggio 2021
Arresti in tutta la Sicilia. A denunciare (rifiutandosi di pagare il pizzo) il “re dei torroncini” Condorelli
Droga, estorsioni, truffe: l’ultimo colpo ai clan
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Il boss del clan Santapaola-Ercolano, Santo Alleruzzo, detto "’a vipera", all’ergastolo da decenni, era riuscito ad ottenere vari permessi premio. Così tornava al suo paese, Paternò, a nord di Catania, dove partecipava a summit, impartiva ordini, organizzava affari. Droga, estorsioni, riciclaggio ma anche truffe all’Inps: grazie a imprenditori collusi venivano registrati decine di falsi braccianti, intascando i contributi di disoccupazione che in parte finivano nella cassa comune del clan e in parte distribuiti ai falsi braccianti per creare consenso e controllare così il territorio.

È quanto emerge dall’operazione "Sotto scacco" della Dda di Catania, condotta dai carabinieri della Compagnia di Paternò e dei Comandi provinciali di Catania, Palermo, Messina, Siracusa, Caltanissetta. Quaranta gli arrestati, 30 in carcere e 10 ai domiciliari, tutti appartenenti alla famiglia catanese di Cosa nostra e in particolare al gruppo di Paternò, storicamente diretto dalle famiglie Alleruzzo, Assinnata e Amantea, e al gruppo di Belpasso. Le accuse: associazione per delinquere di tipo mafioso, estorsione, associazione per delinquere finalizzata al traffico spaccio di sostanze stupefacenti e alle truffe aggravate all’Inps.

Le indagini partono nell’ottobre 2017 dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, che riferiscono sull’ergastolano Santo Alleruzzo. Fatti confermati da successive attività tecniche e di riscontro. «Benché condannato all’ergastolo per duplice omicidio, mafia e traffico di droga, e detenuto nel carcere di Rossano – spiega il colonnello Rino Coppola, comandante provinciale dei carabinieri –, approfittava delle giornate di permesso premio per ritornare a Paternò, dove continuava a impartire ordini per la gestione degli affari del clan».
Affari che, oltre al tradizionale traffico di stupefacenti, occultati perfino nel cimitero, riguardavano «un rilevante condizionamento mafioso dell’economia del territorio. Diversi imprenditori consapevolmente favorivano le attività illecite del clan. Ad esempio il titolare di una ditta di commercio ortofrutticolo, versando una percentuale degli utili d’impresa e consentendo ai mafiosi di concludere occultamente affari, otteneva in cambio protezione per vincere la concorrenza e per gestire eventuali problemi coi creditori o altri clan».

«Non era una vittima – aggiunge il tenente colonnello Piercarmine Sica, comandante del reparto operativo –. Più che pagare il pizzo, investiva sul clan per ottenere vantaggi sulla concorrenza. Con effetti negativi sul settore economico, perché si creava uno squilibrio del principio della libera concorrenza». Altri imprenditori invece facilitavano operazioni di riciclaggio, come acquisto di diamanti, orologi, lingotti d’oro, senza alcun documento fiscale lecito. Un altro invece consentiva la monetizzazione di assegni.

Nessun imprenditore ha collaborato con la giustizia. Unica ad opporsi ai boss è stata l’industria dolciaria Condorelli di Belpasso, quella dei famosissimi torroncini, cui venne fatta trovare una bottiglia con liquido infiammabile e un biglietto intimidatorio: «Mettiti a posto o ti faccimo saltare in aria. Cercati un amico». Ma l’azienda non paga e denuncia. Diversamente dalle imprese che hanno contribuito alla truffa all’Inps che – sottolinea Sica – non solo «alimentava la cassa del clan ma, ancora più grave, produceva coesione territoriale, una sorta di welfare mafioso, costituendo potenzialmente un bacino di voti in prospettiva elettorale».

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