sabato 7 settembre 2019
Dai centri di eccellenza della Lombardia agli ospedali calabresi fino all’esperienza delle famiglie di Cesena, ecco come l’emergenza può essere affrontata. Nonostante le gravi carenze del sistema
Il dramma dell'Alzheimer e la rete che ancora non c'è
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Le persone affette da demenza in Italia sono un milione e 200 mila. E il 50% circa di queste – oltre 600mila – ha l’Alzheimer. Un numero in costante crescita. Si stima infatti che fra dieci anni i malati a cui verrà diagnosticato questo morbo legato all’avanzamento dell’età, saranno 400mila in più. Le previsioni dell’Oms fanno rabbrividire. Come affrontare il fenomeno?

Questa patologia colpisce soprattutto gli “over 65”, e per la maggior parte si tratta di donne (73,9%) tra i 75 e gli 84 anni. I sintomi sono l’esito di uno scollegamento progressivo dei fili della memoria: smarrimento e frustrazione, panico e ansia, apatia, depressione, frasi ripetute in modo ossessivo, spesso aggressività, e una lenta perdita dell’autosufficienza, o comunque della capacità di provvedere a se stessi.

Ma dove e come vengono assistiti oggi i malati di Alzheimer? Quasi la metà (il 46,4%) vive in casa e viene curato dai familiari o da altri caregiver (28,7%) come badanti o infermieri. Soltanto il 12,1% (troppo pochi) è ospite di in una struttura ma c’è anche una percentuale che vive per conto suo, senza nessuna assistenza. Carente, purtroppo, è la rete dei servizi domiciliari che dovrebbero essere garantiti da Asl e Comuni.

I costi diretti dell’assistenza in Italia ammontano a oltre 11 miliardi di euro, di cui il 73% a carico delle famiglie. Sono più di 500 – tra centri diurni, istituti di riabilitazione, Rsa e Case famiglia – le strutture specializzate nell’assistenza e nella cura del morbo e 600 le “Unità Valutative Alzhaimer”, gli ambulatori neurologici preposti alla diagnosi differenziale e alla terapia farmacologica. Perché la diagnosi tempestiva è fondamentale.

«Quando la malattia esplode nei suoi sintomi vuol dire che è iniziata 20-25 anni prima, cioè quando la persona stava bene...» afferma Orazio Zanetti, primario geriatra presso l’Irccs Centro San Giovanni di Dio-Fatebenefratelli di Brescia, la prima realtà sanitaria in Italia ad occuparsi di Alzheimer. «Abbiamo cominciato nel 1991 e nessuno nel mondo scientifico sapeva niente» ricorda Zanetti. Da allora, passi da gigante. Oggi il Fatebenefratelli bresciano è un’eccellenza nazionale: conta ambulatori aperti 6 giorni su 7, un “Day hospital” per la riabilitazione cognitiva e motoria, un reparto ospedaliero con 40 posti letto e un moderno centro di ricerca.

Ma perché è importante sapere per tempo se si è malati di Alzheimer, malattia da cui non si può guarire? «Il test con i biomarcatori – spiega Zanetti – consente di identificare anche le cause di lievi disturbi della memoria e stabilire se si tratta di Alzheimer incipiente oppure se ci sono altre cause. A che serve? Soprattutto a favorire, tra l’equipe sanitaria e i familiari del malato, un’alleanza utile a migliorare la qualità della vita del paziente e a non lasciarlo da solo: una lotta che dura in media 7-8 anni».

Ma oggi tante le esperienze modello. A Monza, la cooperativa “La meridiana” ha realizzato Il paese ritrovato, un borgo dove, in appartamenti protetti, vengono accolti anziani a cui è stata diagnosticata una demenza lieve o moderata: vivono in palazzine di due piani, possono muoversi in libertà e assistiti da personale specializzato, svolgono terapie occupazionali, vanno dal parrucchiere, al bar, in palestra, al supermercato, in chiesa, possono anche coltivare l’orto. Hanno al polso un braccialetto smart che permette loro di essere geolocalizzati in pochi minuti. Altra realtà virtuosa, nata nel 2000, è la Casa di riposo “Rifugio Carlo Alberto” di Luserna San Giovanni, a circa 60 chilometri da Torino. A Roma la residenza Il Pioppo è un centro diurno creato dalla cooperativa “Nuova socialità”: una cittadella senza sbarramenti dove si punta a utilizzare i canali sensoriali come olfatto, vista, udito e tatto per comunicare e mettersi in relazione durante le attività quotidiane.

L’Associazione Amici di Casa Insieme Onlus, presente da 20 anni nel comprensorio di Cesena, aiuta i malati di Alzheimer residenti nel proprio domicilio, a migliorare la qualità della vita mettendo in campo volontari a fianco dei professionisti specializzati. «Tre anni fa mia mamma, allora 86enne, ha cominciato a manifestare i primi sintomi – racconta Agnese Testi, di Mercato Saraceno –, non ricordava le cose e ripeteva le parole: io e i miei fratelli siamo rimasti spiazzati ma abbiamo capito che da soli non potevamo farcela, così ci siamo rivolti al Comune che ci ha indicato Amici Casa Insieme: ci siamo sentiti subito protagonisti della vicenda rompendo l’isolamento, in uno spirito di condivisione che ha reso persino piacevole occuparci di nostra madre, rendendo entusiasta anche lei che ogni settimana partecipa agli incontri del Caffé Alzheimer, fa ginnastica, fisioterapia e gli esercizi per la memoria, partecipa con gli altri al “convivium” dove si preparano i pasti e si mangia insieme. Insomma – conclude Testi – abbiamo imparato che più siamo e meglio è per tutti».

Casa Aima di Napoli Onlus, organizza laboratori di stimolazione cognitiva e centri di ascolto e servizi alla persona (mantenimento dell’igiene, disbrigo pratiche, faccende domestiche...), ambulatori specialistici e sportelli legali. Un lavoro di ricerca all’avanguardia e la gestione di un centro diurno in collaborazione con le associazioni locali, sono invece le mission del Centro regionale di Neurogenetica dell’ospedale Giovanni Paolo II di Lamezia Terme, nel catanzarese, fondato e diretto da Amalia Cecilia Bruni, ricercatrice, allieva di Rita Levi Montalcini. Un fiore all’occhiello della sanità pubblica, nel Sud.

Gabriella Salvini Porro, presidente della Fondazione Alzheimer Italia, con sede a Milano, è una pioniera del settore. «Mia mamma è morta nel 1986: da due-tre anni non ci riconosceva più, cercava si scappare da casa. A noi figlie sembravano sintomi dell’invecchiamento, invece era una malattia ben definita – racconta – non sapevamo che fare, non c’erano informazioni, nemmeno sui medici da consultare. Dopo la sua morte abbiamo deciso di metterci insieme ad altri parenti di malati creando un’associazione, e sono nati “Telefono amico” e poi “Pronto Alzheimer”». Oggi la Fondazione riunisce e coordina 46 associazioni. «Ma c’è ancora molto da fare».


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